Novembre, o Movember, è il mese della consapevolezza sulla salute maschile. A partire dalla medicina è possibile ampliare il concetto di cura, affinché novembre sia un periodo dell’anno dedicato alla decostruzione delle pratiche machiste e violente più radicate. Decostruzione è una parola ambigua, rischia di essere associata troppo facilmente a prospettive e pratiche individualiste: non dobbiamo credere, a mio parare, che le azioni di un singolo possano cambiare la società nelle sue strutture profonde; è un rischio troppo grande pensare che il mondo cambi se cambiamo noi stessi, tralasciando l’analisi sulle cause materiali ed economiche che condizionano le disparità di genere. Quali pratiche, allora, possiamo adottare per far sì che il movember non sia una parola vuota inserita nel calderone torbido delle identity politics? Le risposte sono tantissime e questo articolo non è il testo che le indagherà tutte; tuttavia, abbiamo deciso di intervistare due uomini che hanno deciso di indagare il tema del maschile attraverso la pratica artistica, che si trasforma in veicolo di confronto comunitario. Francesco Ferreri è antropologo e autore del podcast Antropoché, in cui indaga i paradigmi del maschile a partire dalla sua disciplina. Collabora con varie realtà associative e porta avanti numerosi progetti di divulgazione.
Da quando hai iniziato a fare Antropoché, come si è evoluto il tuo uso del linguaggio? Mi chiedo se il podcast per te sia stato uno strumento di indagine sulla materia di cui ti occupi, oltre che creativo.
«Si è evoluto moltissimo: all’inizio credevo che sarebbe stato un prodotto “verticale”, la raccolta di una serie di informazioni derivanti dal mio lavoro di antropologo; col tempo, invece, ho iniziato a collaborare con l’associazione Mica Macho, con cui abbiamo avviato gruppi di autocoscienza maschile, che sono, oltre a spazi essenziali di confronto e di decostruzione di certi stereotipi, una fonte importante di raccolta dei dati. Il mio lavoro continua ad evolversi: lavorando con degli strumenti mediatici che ci permettono di avere una visibilità e un potere crescenti – credo che bisogni re-imparare a utilizzare la parola potere in accezione positiva, in certi casi –, aumentano anche le nostre responsabilità nel comunicare le informazioni. Prendiamo un microfono in mano, calchiamo dei palchi, parliamo di fronte a delle persone di diritti, identità e rappresentazioni, che sono argomenti complessi e poco indagati riguardo al maschile. Per me è estremamente affascinante mettermi alla ricerca di modi sempre diversi per raccontare i temi di cui mi occupo, cerco di inserirmi in contesti nuovi e di trovare nuovi linguaggi per parlare di questioni come patriarcato, responsabilità, not all men».
A proposito dei gruppi di autocoscienza maschili: è raro trovarne, soprattutto in contesti periferici. Quali pratiche si portano avanti in questi contesti per decostruire i principali pregiudizi e le pratiche legate a una visione patriarcale del maschile?
«È difficile definire in maniera univoca i gruppi di autocoscienza. Con Mica Macho, in collaborazione con l’Osservatorio sul maschile, tempo fa abbiamo lanciato un webinar su Meet per lanciare il progetto: ci aspettavamo che partecipassero una trentina di persone al massimo, invece la mole imponente di richieste ci ha imposto di trasferire l’incontro su Twitch, l’unica piattaforma che ci permetteva di sostenere la presenza di così tanti partecipanti. L’accessibilità è un tema importante, soprattutto se riguarda uno strumento nuovo e in via di definizione. Ad aprile 2023 con Mica Macho abbiamo pubblicato un libro dal titolo Cosa vuol dire fare l’uomo, che è diventato una sorta di breviario per l’accesso a certe tematiche. A novembre dello stesso anno, con il femminicidio di Giulia Cecchettin, la discussione su questi temi ha accelerato molto, nel bene e nel male.
Nel caso nostro, i gruppi di autocoscienza si tengono online a cadenza bisettimanale: da un lato garantiamo l’accesso a più persone, dall’altro le persone possono iscriversi anche a incontri singoli, quindi ogni volta i contenuti degli incontri vanno pensati e strutturati per partecipanti di tutti i tipi. C’è una parte più teorico-introduttiva, un’altra di confronto. Io personalmente, peraltro, mi occupo anche di educazione sessuale, quindi i nostri incontri virano anche sul dare risposte su temi come l’educazione sessuo-affettiva».
Che consigli daresti a chi vuole avviare un gruppo di autocoscienza maschile?
«I gruppi di autocoscienza possono avere qualsiasi forma: si può partire da un libro o da un altro prodotto artistico per sviluppare il dibattito, ad esempio. La mia speranza è che le persone che partecipano ai nostri incontri con una certa regolarità assumano le competenze per aprire un gruppo di autocoscienza maschile fisicamente, nel luogo in cui vivono. È fondamentale avere un metodo strutturato affinché gli incontri siano efficaci, delle pratiche in cui il gruppo stesso si ritrova. Non esiste un metodo univoco; per partire da zero, tuttavia, consiglio di iniziare con un gruppo fisso, anche piccolo, con cui avviare una pratica discorsiva regolare e costruire dei legami. È essenziale sviluppare un legame tra uomini in cui decostruire certe pratiche machiste, riscoprire un concetto di fratellanza slegato dagli stereotipi più radicati nella nostra società. È importante anche che gli incontri siano lunghi, le persone hanno bisogno di “stare” nell’argomento, sviscerarlo, senza sentirsi in imbarazzo: il fine dei gruppi di autocoscienza è creare uno spazio sicuro che lavori con prospettive di lunga durata. Diamoci tempo».
Enrico Tomassini è dottorando in urbanistica alla Sapienza e artista visuale. Nei suoi progetti indaga il maschile come prodotto culturale e sociale a partire dallo studio e dalla ricerca sui corpi e sulla loro dimensione nello spazio.
Da quali esigenze è iniziata la tua ricerca sul maschile e come si è sviluppata?
«L’esigenza di lavorare su questo tema è nata a ridosso del covid, un periodo in cui sono diventato padre. In quel momento, sia l’esigenza di riflettere in maniera differente sul concetto di cura in ambito domestico, sia il confronto con la mia compagna mi hanno invogliato a sviluppare un’indagine su questi argomenti. In particolare, uno dei fattori legati alla pandemia che mi ha fatto molto riflettere è stato l’aumento drammatico dei casi di violenza domestica su donne e bambini. Questo dato va di pari passo con un’esigenza personale di maggiore comprensione della mia sfera emotiva».
Il lavoro riproduttivo e di cura è storicamente femminilizzato, nonché spesso gratuito. Esiste, credo, una correlazione tra la femminilizzazione del lavoro di cura e la relegazione di alcune emozioni e sensazioni al “femminile” e alle persone socializzate come donne: sensibilità, attenzione, cura per l’altro. Sei d’accordo?
«Sì, questa suddivisione si ritrova negli studi di molti antropologi e studiosi che si sono dedicati al tema. C’è una netta divisione tra pubblico e privato: il maschile ha una forte dimensione pubblica, diventare padre ha un forte aspetto di riconoscibilità sociale (penso al gesto di “issare il bambino al cielo”), mentre le persone socializzate come donne sono relegate a una sfera domestica e privata. Ho cercato di comprendere il significato di questa disparità nei lavori riproduttivi e come essa definisse e qualificasse la mia vita, impedendo di accorgermi della disparità nei miei rapporti con l’altro sesso. Questo processo mi ha aiutato a prendere consapevolezza del mio ruolo sociale: le pratiche di cura permettono di immedesimarsi nei panni dell’altro, nell’esperienza del maschile, che per come è concepito adesso limita le possibilità di stare con gli altri e di creare comunità sane, familiari o amicali che siano».
In un tuo progetto recente hai analizzato l’arte figurativa inserita negli spazi urbani di Firenze e la rappresentazione del maschile come forma dominante che essa veicola. Come interviene l’uso del corpo come pratica artistica e performativa per modificare questa concezione dell’uomo forte e dominante?
«La rappresentazione del maschile è totalmente innervata nel contesto urbano, tanto da non dichiararsi. Guadagna parla di “silenzio assordante del maschile”: i corpi sono uno strumento per rendere visibile quello che quotidianamente avviene nella società e si solidifica in rappresentazioni statiche, eterne. Il lavoro legato al patrimonio culturale comporta una messa in discussione di queste forme eterne di rappresentazione dei corpi. Tramite il corpo e il suo movimento nello spazio possiamo prendere consapevolezza razionalmente e dialetticamente degli oggetti che occupano i nostri territori: le persone sono molto colpite dalla consapevolezza di quanto siano pervasive queste rappresentazioni dei corpi maschili quando se ne rendono conto. Usare i workshop e le esibizioni mi ha permesso di approfondire la mia ricerca. Credo molto nel concetto di spogliazione del maschile, l’idea di ritrovare sé stessi attraverso la rimozione di tutte le armature che abbiamo addosso e che la società ci impone».