maggése [der. di maggio].
La pratica agricola del “mettere un campo a maggese” – che originariamente si svolgeva nel mese di maggio – consiste nel tenere a riposo un terreno e prepararlo alla coltivazione successiva.

Un periodo di improduttività della terra necessario per liberarla da erbe infestanti, arricchirla di sostanze nutritive e garantire l’immagazzinamento di acqua nel suolo. Dal mondo agricolo apprendiamo quindi che per performare – dal tardo latino «dare forma» – abbiamo bisogno di perdere temporaneamente la forma acquisita, di rinunciare alla prestazione, di assecondare l’emergere del vuoto. Di un vuoto fertile. E proprio all’ingresso di questo mese, il Primo maggio, ricordiamo l’impegno di lavoratrici, lavoratori e movimenti sindacali per i diritti del lavoro e ne riaffermiamo le istanze: una delle più calde, la riduzione della settimana lavorativa a parità di salario.

Lo “stare a maggese” si inserisce quindi in un ciclo rigenerativo dove tempo libero, svago e attività ludiche contribuiscono al benessere dell’individuo e alla preparazione per applicarsi alla nuova prestazione. Eppure in questo tempo, il nostro, sono i ritmi intensivi della società della performance a imporsi come dominanti, con la conseguente demonizzazione della non-produzione: stanchezza, riposo, divertimento. Uno spunto interessante viene proprio dall’etimologia del termine divertirsi, dal verbo latino divèrtere ovvero «volgere altrove, deviare».

La reputazione del ludico ha spesso assunto, soprattutto nelle grandi città capitaliste, una connotazione indecorosa e disdicevole; nelle comunità tribali però lavoro e gioco facevano parte a pari titolo dell’agire sociale, due condizioni reciproche che solo nell’attrarsi magneticamente riuscivano a soddisfarsi. Dunque, stare a maggese e lavorare: non un aut aut senza soluzione di continuità, piuttosto due argini dello stesso corso d’acqua che ne assecondano il flusso e lo contengono, evitando lo straripamento (o il burnout).

 

foto: Asia Neri