di Marta Staulo
Negozio di dischi per me fa rima con gelato.
Era la strategia del tipo del negozio per tenermi buona e lasciare che mio padre potesse mettere in gioco il maggior potenziale economico possibile. Sono da Move On in Piazza San Giovanni ed è il Record Store Day. Il primo per questo gioiellino nato da meno di un mese.
Celebrare i negozi di dischi significa festeggiare la mia infanzia, la mia famiglia e le giornate passate seduta sui marciapiedi fuori ai negozi di turno. Non c’erano birre e i vinili erano file di buste grigie che io a stento arrivavo a vedere. Erano per me l’incomunicabile.
“Senti come pesa”. Mio padre valuta i dischi al grammo. Prima il peso lordo, poi la trama di tutte le carte. Prima la copertina, poi gli inserti, infine l’etichetta sul vinile. La valenza fisica anticipa ogni frequenza. Si testa la temperatura, si accendono le valvole e si aspetta di misurarne il calore che d’inverno è il tuo unico compagno d’ascolto. Arrivati al calore ideale, si definisce la tua posizione nello spazio, nel punto dove si intersecano gli assi che partono dai baricentri delle casse.
Tu contro le casse. Ti chiede ogni volta come si sentono i bassi, come fosse facile rispondere. Ti fa credere che il suo impianto quando suona crea ologrammi dai solchi che con la giusta sensibilità potresti quasi toccare, lì all’incrocio del dolby surround. Puntina, go on. Questa resta la mia unica sacralità.
Arrivata da Move On ho la percezione che un fluido, come l’uniposca color oro premuto quando non usciva, dai vinili suonati al primo piano si riversi per le scale, inondi la zona bar, ti si attacchi addosso fino contaminare la piazza.
Perdo la dimensione personale ed entro in un flusso fitto di persone e onde.
Mi ritrovo in un’esperienza estetica soul and glitter. Se vi fosse meno gente mi sentirei in un film di P.T. Anderson. Metalli caldi, legno, neon, specchi e groove.
Nella mia memoria non c’era tutta questa figa, non c’erano donne proprio a pensarci e non c’era manco il fritto.
I vinili si ascoltavano a rotazione a seconda del cliente di turno, con il clan psichedelico che si schierava contro quello funky. Si perché nel mio immaginario l’ascoltatore di psichedelia tratta il vinile come un’ostia. Sei funky se con i dischi ci fai il pane: li massaggi fino a che le dita simulano esperienze di autoerotismo.
È quello che succede qui stasera in un dj set a sei mani: Pise, Guerra, Bundu. Nomi in codice perfetti per dei partigiani della resistenza analogica. È una partita che si gioca tra il sacro e la dimensione carnale che nella mia testa unisce il vinile alla birra, passando per i battiti, arrivando al sudore, sublimando in altri spiriti.
Prima di uscire mi incanto di fronte alla parete di parole e neon. Record, Bere, Beer, 18, Day. Un invito a bere responsabilmente che sembra messo lì per testare se sei già ubriaco.
Ubriaco di cosa, potresti chiederti.
Di gente, di suoni, di riflessi e di energia.