di Tommaso Ciuffoletti
Alla metà degli anni ’90 si fumava nei pub, nei ristoranti e anche nei primissimi fast food con nomi tipo Money Money e Italy Italy. I motorini erano ancora i Sì, i Grillo, i Fifty Malaguti, i primi scooter e io che avevo l’Atala Green. Con un gruppo di amici perduti del liceo Galileo, nelle sere d’estate sciamavamo all’Anfi a comprare il fumo. Arrivavi a bordo prato alle Cascine, in mezzo al buio pesto, qualche falò improvvisato in lontananza e il luccicare di accendini che scaldavano i coltelli con cui i marocchini (per noi eran tutti del Marocco, poi vai a sapere) ti tagliavano il fumo dalla panetta.
Fu in quell’Anfi che prese il via la leggenda di Valeriooooo. Un urlo, un’evocazione, un rituale collettivo. Che fosse al Forte Belvedere (altro luogo in cui si fumava tutti insieme), ai concerti, allo stadio o a Bobolino, bastava che ci fossero gruppi di persone e l’umore giusto e qualcuno levava un grido: Valeriooooo. E altri, da gruppi lontani, rispondevano più forte: Valeriooooo. Ed era un’eco che si ripeteva per prati e gradinate segnando i puntini di un disegno che a unirli veniva fuori un punto interrogativo. Chi minchia era Valerio?
Alcuni dicono fosse un tizio infrattato con l’amante fra qualche frasca delle Cascine e la fidanzata, che andava cercandolo, urlava disperata il suo nome. Altri raccontano che Valerio se ne sparì col fumo, sollevando un coro di voci che lo invocavano. C’è poi chi dice che Valerio si fosse semplicemente perso per il pratone delle Cascine e chi sostiene che invece non sia mai realmente esistito.
Per quel che mi riguarda Valerio eravamo noi.