I commessi di COS si fanno un culo così.

Si fanno un culo così, da COS, anche le volte che non hanno niente da fare.

Ma è possibile, in effetti, non avere niente da fare, se sei un commesso di COS?

Ci sono giorni, al principio di gennaio, in cui siamo poverissimi. Ci si aggira per il centro privi di potere d’acquisto, i risparmi di una vita fumati in regali brutti. 

Allora li si noterà, dietro le vetrine. Li si osserverà mentre stanno lì, mentre circumnavigano le casse nei loro abiti monomarca. Li si vedrà che si tediano a morte, e davvero si può dire che non stiano facendo niente. Eppure è tutto un abbaglio, e sono in realtà operosissimi; ma per noi che siamo finiti, che siamo, si può proprio dire, sul lastrico, ridotti ai minimi, alla canna del gas, il compito che svolgono è del tutto indiscernibile. 

L’errore è a monte, direbbe il saggio, e sono le categorie del fare e non fare in sé che hanno perso il senso in quest’epoca di Airbnb™ Experiences, di smart working, di dermatiti da stress, di intolleranze al glutine. 

Costretti al di fuori dalle attività commerciali, condannati a crepare all’addiaccio da conti in banca malinconici intuiremo la verità, e cioè che l’impiego dei commessi di COS, quello primigenio, sostanziale, subliminale, consiste non nel commerciare cardigan, ma nel fondare l’archetipo di commesso, nell’incarnare la pura idea dell’assistente alla vendita, il concetto stesso di commessità.

Da un lato noi con le Mastercard spompate, dall’altro loro con i lupetti antracite, a guardarci e riconoscerci, a comprendere il lavoro, il consumo, il lavoro che consuma, in un attimo commovente ed eterno, prima dell’inizio dei saldi.

illustrazione: Lafabbricadibraccia

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