C’era una volta un principe.
Si chiamava Rajaram e veniva da una terra molto lontana.

Adorava viaggiare e scoprire nuove realtà tanto quanto fare ritorno in quelle che ormai considerava “casa”. Correva l’anno 1870 e Firenze era all’apice del suo celeberrimo splendore, per l’ultimo anno sarebbe stata ancora capitale del neonato Regno d’Italia.

Rajaram era un principe indiano e come tale aveva degli impegni da rispettare. Aveva appena trascorso un periodo di permanenza a Londra per migliorare il suo inglese, le sue conoscenze e salutare la Regina che però non era nel Paese per altrettanti impegni; purtroppo ai tempi era molto più difficile sincronizzare le agende di due Reali. Non gli andò comunque male e, ricevuto dall’allora Primo Ministro William Ewart Gladstone, ricevette le nozioni richieste e un consiglio non-richiesto: percorrere il suo viaggio di ritorno verso l’India visitando Parigi, Nizza, Genova ed infine Firenze.

Foto di Marco Giorgi

Essendo un appassionato di arte e cultura in ogni forma, non poté che innamorarsi della culla del Rinascimento. Ma proprio durante il soggiorno nell’ultima incantevole tappa, fu colpito da un improvviso malore – probabilmente da un attacco derivato da un’infezione polmonare trascurata – che il 30 novembre del 1870 lo uccise all’età di ventuno anni.

Il principe non viaggiava mai da solo e il suo entourage chiese il rispetto del rito braminico per la cerimonia funebre: cospargere le ceneri alla confluenza di due fiumi. L’unico punto possibile era in fondo al Parco delle Cascine, dove il Mugnone si immette nell’Arno.

Per far sì che tutto si svolgesse nel migliore dei modi, l’allora sindaco di Firenze Ubaldino Peruzzi diede il permesso di erigere la pira sulla punta estrema delle Cascine. Molti fiorentini parteciparono al rito e da allora il luogo venne chiamato “l’Indiano“.

Quattro anni più tardi nello stesso punto è stato costruito il monumento dedicato al giovane Rajaram, per volere della madre. L’opera è stata eseguita dallo scultore inglese Carlo Francesco Fuller e porta una iscrizione in quattro lingue: italiano, inglese, hindi e punjabi.

Tra il 1972 e il 1978 nei pressi del monumento fu costruito il viadotto su progetto degli architetti Adriano Montemagni, Paolo Sica, e dell’ingegner Fabrizio de Miranda, al quale venne dato il nome di Ponte all’Indiano. Per le caratteristiche strutturali dell’opera, Fabrizio de Miranda ha ricevuto ad Helsinki nel 1978 il premio europeo ECCS-CECM (Convenzione europea della costruzione metallica), è infatti il primo ponte strallato di grande luce ancorato a terra realizzato nel mondo ed è uno tra i più grandi ponti strallati in Italia del XX secolo.

Oggi, alla tenera età di 40 anni, il Ponte è un Sorvegliato Speciale: “Rispetto al Ponte Morandi, l’Indiano è tutta un’altra cosa – assicura il Dottor Andrea Vignoli, professore di Scienza delle costruzioni all’Università di Firenze– non è di calcestruzzo precompresso ma di acciaio con stralli costituiti da fili d’acciaio. Di recente è stato sottoposto ad interventi alla soletta, prima in calcestruzzo non adeguatamente armato, che è stato sostituito con un materiale più elastico di peso equivalente”.  

Del Principe Rajaram Chuttraputti Maharajah di Kolhapur invece, se ne preoccupano in pochi. Quello che doveva essere una sorta di mausoleo, oggi appare in condizioni molto preoccupanti: alcune parti risultano particolarmente danneggiate e l’opera di restauro iniziata qualche anno fa, pare in una fase di stallo.

A Lungarno inizia a frullare in testa l’idea di attivare un crowdfunding per testare quanta sensibilità la città di Firenze nutra ancora per questa lontana e romantica storia. Sicuramente ci sono cause più lodevoli e umanitarie; sicuramente ristrutturare una statua decadente su un principe indiano ormai dimenticato dai più, risulterà un’inutile perdita di tempo e denaro; sicuramente la Palazzina accanto basta ed avanza a tenere viva la memoria.

Però la memoria è una brutta bestia, dicono a Genova.