di Alessia Dulbecco
illustrazione di Elisa Lupi

 

Il 10 agosto 2023 si spegneva, a Roma, Michela Murgia. Scrivo di lei in un tempo e in uno spazio altro – mi trovo a Berlino e sono trascorsi trecentoquarantanove giorni dalla sua scomparsa – perché credo che serva un luogo e un tempo diverso per accostarsi alla sua eredità intellettuale e provare a restituirla a chi leggerà queste righe.

Nel podcast Splende e splenderà, disponibile sulla piattaforma Storytel, le scrittrici Silvia Grasso e Carolina Capria sottolineano come l’odio verso Murgia, che non si è assopito neppure nei giorni immediatamente successivi alla sua dipartita, fosse dovuto al fatto che incarnava una figura di intellettuale scomoda, molto diversa da quella in voga nel XX secolo. Se, come suggerisce Grasso, un(’)intellettuale è «una persona capace prima di altre di leggere la realtà e che con la sua attività culturale produce sapere», è palese che Murgia lo sia stata. Da Il mondo deve sapere a Tre ciotole, ogni suo saggio e romanzo ha saputo portare attenzione intorno ai temi che più le stavano a cuore: dal precariato sociale alla religione, dalla cultura queer alla morte intesa come ultimo tabù. Il suo lavoro culturale, con cui ha saputo leggere e denunciare molti problemi della nostra società, si è diffuso attraverso ogni mezzo a disposizione – la radio, la tv, i blog, i social, il teatro, la moda e persino la politica – per poter raggiungere tutti gli strati della popolazione. La sua figura rappresenta, pertanto, una novità nel panorama intellettuale italiano: per la prima volta una donna rompe gli stereotipi connessi a questo ruolo e, come sottolinea Capria, «si inventa un modo nuovo di occupare lo spazio» mescolando forme culturali ritenute “alte” o “basse” a codici espressivi e comunicativi fortemente innovativi.

Anche per questo è impossibile districare il suo ruolo di attivista da quello di intellettuale: nel suo lavoro, entrambi questi orizzonti si fondono. I suoi libri e i suoi articoli non erano meno potenti dei reel o dei post che apparivano sul suo profilo Instagram ogni qualvolta riteneva necessario soffermarsi su un fatto di cronaca o sulla violenza verbale che subiva da politici o altri scrittori (il maschile è voluto). Dal mio punto di vista, ciò è dovuto al fatto che il suo obiettivo non è mai stato quello di trovare un facile posizionamento – come scrittrice o influencer – ma di costruire comunità e, per farlo, servono entrambi gli ingredienti perché consentono di raggiungere più persone sostenendole nello sviluppo di consapevolezza e pensiero critico.

Nella sua autobiografia postuma, Ricordatemi come vi pare, afferma che «i superstiti vivono di simboli». Indubbiamente è ciò che, insieme a tante persone, ho fatto anche io, nell’arco di questo lungo anno senza di lei. Ho partecipato alle commemorazioni pubbliche e (ri)letto molti dei suoi libri che, purtroppo, non smettono di essere attuali. Spero che queste righe suscitino il desiderio di approfondire il suo lavoro e, per questo, consiglio di partire dalla fine. L’esergo che apre la sua autobiografia è una frase di Pasolini, che recita: «è dunque assolutamente necessario morire, perché, finché siamo vivi, manchiamo di senso». Personalmente, la lezione più bella che mi ha lasciato Murgia ha a che fare proprio con la morte. Rifiutandosi di cadere nelle narrazioni consuete della malattia, ha dato a un momento intimo e triste un valore sociale e politico intenso, anche in chiave di genere. Se è vero che, in generale, è difficile parlare di morte, lo è ancora di più quando questo evento coinvolge una donna. Scegliendo le parole con cui raccontare la malattia e gli ultimi momenti di vita ha scelto non solo di autodeterminarsi ma di contribuire a un’altra narrazione, capace di mettere le donne nella condizione di parlare di sé, anziché lasciarsi parlare. Murgia ha reso la vita e la morte performance politiche, ed è questa la sua eredità più grande.

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