Come si può parlare di crisi climatica, lavorativa, affettiva e relazionale, attraverso una storia che riesce a porsi sia come manifesto generazionale sia come appello alla coscienza collettiva di classe, restando comunque un piacevole racconto di formazione? La risposta si trova nell’ultimo romanzo di Sara Mazzini, scrittrice e attivista di San Casciano in Val di Pesa, da poco in libreria con Il mondo ci deve delle scuse (Aguaplano, 2024). L’abbiamo raggiunta per una chiacchierata intorno al libro.
«Ho scelto una storia che fosse il più possibile semplice e codificata, dove la questione generazionale viene ricalcata più su un discorso narrativo standardizzato che reale. In realtà, tutti i protagonisti del libro, sia genitori che figli, soffrono i problemi derivati dal sistema in cui vivono. Ci sono tutti dentro, trasversalmente alla generazione di appartenenza. Poi c’è chi ne è più consapevole e chi meno, chi è più attivo e chi meno». La storia di Ivan, infatti, delle sue passioni accantonate, del conflitto con i genitori separati e di un amore lasciato a metà, è l’impalcatura all’interno della quale Sara sviluppa un più ampio discorso su tematiche come ambiente e lavoro, che influiscono direttamente o indirettamente sulla dimensione relazionale degli abitanti di Pigna Marittima, fittizia cittadina di provincia in via di gentrificazione, plasmandone pensieri, scelte, azioni e incomprensioni.
«Ho unito lavoro e ambiente perché sono due temi che subiscono maggiormente le fasce deboli. Chi è privilegiato si può anche salvare in qualche modo, altrimenti no. Tutte le lotte del resto sono intersezionali, e la grande lotta resta sempre, anche oggi, quella di classe». Un j’accuse che emerge senza chiedere permesso o fare troppi complimenti dai dialoghi che si scambiano i protagonisti o dai loro monologhi interiori, rafforzato anche dalla scelta di adottare una seconda persona singolare come voce narrante, che sembra attraversare la quarta parete per rivolgersi direttamente al lettore. «L’ho scelta perché ha un tono accusatorio, vero, ma anche perché la storia viene raccontata dal punto di vista di Ivan, che ha uno spirito critico rivolto all’esterno ma anche all’interno, e come critica ciò che è fuori da lui, critica anche sé stesso, mettendo continuamente in discussione aspetti di sé, della sua vita, della vita dei genitori o degli amici, e la seconda persona in questo aiuta, perché sembra che tu stia puntando il dito verso alcune mancanze, qualunque esse siano».
All’interno del romanzo si trova poi tanta musica, letteratura e cinema. «Anthony Burges, Irvine Welsh e Jack Kerouac sono la Santissima Trinità dei miei vent’anni, e in qualche misura sono finiti nel libro. In generale, tutta la Beat Generation mi ha influenzato (nel romanzo c’è una rivisitazione in chiave moderna dell’Urlo di Allen Ginsberg, ndr), ma anche Due di due di Andrea De Carlo o i romanzi di Hubert Selby Jr. Tra i film, Donnie Darko mi ha fatto da guida, ma aggiungo anche quelli di David Lynch. Poi Andreas Malm, David Graeber e Mark Fisher per la loro critica e messa in discussione della struttura sociale. Mentre uno dei miei mentori sulla questione ambientale è Fabio Deotto».
Quali sono allora le scuse che, per Sara, ci deve il mondo? «L’idea viene dalla figura di Remì, ripreso dall’omonimo personaggio di Sulla strada, che nel romanzo di Kerouac diceva sempre: “il mondo mi deve alcune cose”, mentre compiva piccoli furti. Ho solo generalizzato quella frase, riportandola non al singolo individuo ma a tutti quelli a cui è stato promesso qualcosa a livello sociale ma poi è stato disatteso. Però nel libro si prova a ribaltare la prospettiva provocatoria posta dalla domanda del titolo: cosa dobbiamo noi al mondo? Cosa possiamo fare affinché non ci si trovi più nella condizione di dover fare promesse irrealizzabili, illudendo una o più generazioni prima che gli si dica che quelle promesse non si possono mantenere?».
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