di Cristina Verrienti

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10 giugno 2015. È mercoledì pomeriggio, il Festival degli Scrittori è cominciato da poche ore, il cielo mi guarda divertito, carico di nuvoloni, con la promessa di piovermi addosso. Quaranta minuti spaccati per scendere i colli fiesolani, trovare parcheggio e maledire mentalmente qualche turista inchiodato in mezzo alla strada senza apparente motivo. Arrivo in orario all’appuntamento con Ilide Carmignani, traduttrice di fama internazionale e giudice, insieme a Martina Testa, del premio traduzione Gregor von Rezzori 2015. Puntuale sì, e asciutta, ma forse al ritorno non mi andrà così bene. E allora cominciamo!

Che tipo di contributo dà il festival allo sviluppo del panorama letterario fiorentino e toscano secondo lei?

Penso che questo festival riesca a portare autori che altre manifestazioni non riuscirebbero ad attirare. Non si tratta solo di autori nuovi, ma anche scelti con estrema cura, quindi dal profilo alto e raffinato. È un privilegio poter assistere in pochi giorni a incontri, a conferenze e a lectio di scrittori di questo livello. Inoltre penso ai lettori, a un pubblico di lettori forti: forse la mia è un’impressione sbagliata, ma, abitando a Lucca e lavorando nel mondo dell’editoria da tanti anni, ho la sensazione che Firenze resti una città a volte ingiustamente trascurata dal circuito delle presentazioni di scrittori internazionali, o per lo meno, di quegli autori che ho seguito di più, perché legati al mio lavoro. Ho la sensazione che si salti da Firenze a Roma e che talvolta si scenda a Bologna.

Quindi la sua percezione è che nel nostro capoluogo ci sia un vuoto?

Forse, essendo toscana, sono di parte. Eppure vorrei venire a Firenze e avere la possibilità di ascoltare scrittori che, invece, l’editoria milanese ha la tendenza a portare sulla costa, addirittura fino a Sarzana. Consuetudine dovuta a una maggiore familiarità di questo ramo dell’editoria con la Liguria. Altrimenti verso Roma, per l’importanza e la tradizione, ovvio, ma anche perché, oltre a essere la capitale, promette un certo tipo di occasioni televisive. Credo quindi che il Festival degli Scrittori venga a offrire incontri in una situazione in cui effettivamente si avverte la necessità. Essendo questa una città colta, sarebbe un peccato che le aspettative dei lettori fiorentini, e in generale toscani, restassero disattese. Il festival non colma solo un forte interesse, ma stimola anche, portando delle proposte e suggerendo degli autori importanti che altrimenti sfuggirebbero dal dialogo con tutte le persone che in città si interessano di scrittura e di editoria.

Alla luce della precaria posizione della figura del traduttore in Italia, come ha accolto l’invito a partecipare al festival e come percepisce l’iniziativa di assegnare un premio alla traduzione?

Per quanto riguarda l’invito di entrare in giuria mi sono sentita onoratissima, perché all’inizio pensavo di prendere parte mandando una mia traduzione e se possibile di partecipare come semplice candidata. Perciò entrare in giuria è stato come essere promossa di grado.

Per quanto riguarda il premio di traduzione mi sembra meritorio. La traduzione per i testi letterari, in particolare quella che veicola la narrativa, la poesia, la saggistica, è una forma di comunicazione interculturale di altissimo livello. Chi non si è mai soffermato a riflettere sul tema pensa alla traduzione come a qualcosa di meccanico, mentre le lingue sono asimmetriche e molto diverse le une dalle altre perché rispecchiano realtà e modi di pensare differenti. Dunque per superare quello che sono i nostri confini, da un punto di vista culturale, abbiamo bisogno di una traduzione. La qualità della traduzione è la qualità della comunicazione interculturale. Una buona comunicazione interculturale riesce a guardare a se stessa dall’esterno. È un po’ come guardarsi dal di fuori con gli occhi di qualcun altro, prendendo coscienza delle proprie tematiche e dei propri limiti. La traduzione è il veicolo di tutto questo. Non sempre questo fatto viene riconosciuto perché la traduzione mira all’invisibilità, richiede un lettore raffinato che ha esperienza approfondita di un’altra lingua, nonché del testo letterario. Quindi la consapevolezza non è immediata. Bisogna sottolinearla e far capire che il testo che leggiamo in italiano non è l’originale, ma è stato interpretato da qualcuno come un pezzo d’opera o un brano musicale.

Organizzare un premio per la traduzione in che modo aiuta la visibilità della figura del traduttore?

Credo che aiuti la visibilità nel momento in cui una manifestazione non è apertamente diretta a traduttori. Discutere di fronte a un pubblico di lettori forti, lettori comuni, di quali sono state le difficoltà incontrate in un testo, di che tipo di scelte sono implicite in una mediazione come quella della traduzione letteraria, inevitabilmente porta il lettore a crescere, ad essere più sofisticato, più consapevole, e quindi in grado di giudicare la qualità del lavoro stesso. In questo modo diventa capace di riconoscere un ruolo significativo alla traduzione e di richiedere traduzioni di livello più alto. Io, come traduttrice, vorrei che i lettori non si accontentassero, che non leggessero il testo come qualcosa che nasce in maniera misteriosa dallo scrittore straniero, ma capissero che si può tradurre in molti modi e a molti livelli. È giusto, allora, nei confronti di un lettore che la traduzione sia adeguata e che non venga considerata come qualcosa su cui in fondo si può risparmiare come sulla qualità della carta. La traduzione non è come la carta. La carta non entra nel merito del testo: le parole sono quelle, il testo è quello, dunque se un libro è tradotto malamente scompare. Spesso i libri hanno una sola chance di traduzione, infatti difficilmente un testo che non è un classico viene ritradotto. Se viene effettuata una traduzione trascurata e quella chance non funziona adeguatamente, il libro cadrà in un angolo e nessuno lo riprenderà in mano.

Speriamo, allora, che questo festival riesca a coinvolgere più lettori o che possa far diventare quelli deboli un po’ più forti.