Matteo Sani una volta era scenografo. Dopo essersi fatto le ossa in Italia, per amore è partito e ha costruito una carriera in Germania. Ma avvertiva il Sassaroli in Amici Miei: “mai andare in Germania”. L’amore è finito, i piani sono cambiati.

Matteo si prende un anno sabbatico, un viaggio verso Est. In ordine alfabetico: Bratislava, Budapest, Sofia, Tallin, Valona. Torna a Firenze con un’idea che di lì a poco diventerà un’impresa, ma soprattutto una bella storia.

Perché Fotoautomatica non è solo il lavoro grazie a cui Matteo vive, ma una questione pubblica, antropologica e artistica. Un passo indietro. Prima del crollo del Muro in Occidente erano ben diffuse le cabine per fototessere: perlopiù americane, erano macchinari analogici che negli anni erano stati modernizzati, fino a essere sostituiti dai mezzi digitali. “Però negli stessi anni”, spiega Sani, “a Est chi voleva una fototessera doveva andare in uno studio”. Le fotocabine non c’erano. Almeno fino all’89, quando iniziarono ad arrivare quelle ormai vecchie scartate ad Ovest. Poi nel tempo sono cadute in disuso anche nell’Europa dell’Est, sconfitte dal progresso. 

Sani le vede e intuisce il potenziale di quei vecchi oggetti ingombranti. Inizia a recuperarli, li importa e prende a studiarli, a smontarli e a restaurarli nell’officina di Pelago, sulle colline fiorentine. La prima cabina Fotoautomatica arriva in strada nel 2010, ormai 13 anni fa. Oggi le macchine sono 5 nel centro di Firenze, 2 all’interno di locali, e diverse altre decine nel suo laboratorio. Ogni cabina è unica, ma l’approccio è sempre lo stesso: si inserisce una moneta da €2 (il pagamento POS non è possibile: “è una questione di rigore filologico”), si tira la tendina e poi arrivano i flash. Quattro lampi, uno per ogni scatto. Dopo inizia l’attesa, 4 minuti in cui la macchina lavora allo sviluppo, senza elettronica.

Il fascino di queste macchine è una questione di peso. Da un lato la mole della meccanica, dell’ingegneria, della chimica. Dall’altra l’intimità, l’attesa e la sorpresa. “Le macchine digitali mostrano l’anteprima, puoi scartare, riprovare. Qua invece nessuno ti rende migliore, sei te con il destino. Una moneta, aspetti qualche minuto, poi esce la verità”. Niente pose a raffica, nessun ripensamento.

Sembra poco, forse nostalgico, magari vintage, ma non è questo. Per chi è cresciuto con i selfie si tratta di un fenomeno nuovo, di rieducazione allo stupore. Matteo in questi anni ha raccolto testimonianze, recensioni, storie di chi è venuto da fuori per un autoscatto in bianco e nero. Soprattutto a tarda notte “in queste piccole camere oscure succedono cose straordinarie”: tirata la tenda, l’intimità della macchina diventa un confessionale laico dove ci si bacia, si ride a crepapelle, Clark Kent diventa Superman, si inventano personaggi pazzeschi. Qualcuno condivide le proprie creazioni online, ma a volte “se qualcosa va storto al mattino ritrovo le foto inceppate nella macchina”. Come nel meraviglioso mondo di Amelie Poulain, ma meno retorico. Su richiesta rimborsa e restituisce al cliente, altrimenti conserva in privato: “c’è qualche tetta o pisello, ma capita anche la tipa scesa in accappatoio per fotografarsi col phon mentre si asciuga i capelli, o il matto che si ritrae mentre mangia un piatto di pasta”. 

Dopo i primi successi Matteo aveva “il desiderio ‘imperialista’ di esportare il marchio in altre città”. Poi le reazioni di fiorentini e forestieri affascinati gli hanno suggerito di legare Fotoautomatica alla città, come unicità locale. Oggi il suo sogno non è di espansione, ma di conservazione e divulgazione. Magari in collaborazione con Fondazione Alinari, chissà. Nel tempo sono arrivati interessamenti da brand commerciali, anche dai big della moda, in cerca di fondali per i set degli spot. Matteo ha detto no, perché le cabine hanno un’anima punk, e associarle a marchi del lusso non avrebbe senso. Meglio che siano alla portata della creatività sotterranea, quella che nasce in strada. Flash abbaglianti, alla portata di tutti.