de Le Comari sull’Uscio

Ormai è risaputo: il lavoro nobilita l’uomo. Ma quando diventa una necessità negata, il lavoro è soprattutto un bel tormento. Lo sapevano bene quei lavoratori che all’inizio del ‘900 andavano in Maremma per racimolare i pochi spiccioli che sarebbero serviti a campare qualche mese. Per raggiungere le amare terre toscane, i contadini salivano su di un treno chiamato “della leggera” proprio perchè i suoi passeggeri, uomini dall’impiego incerto e malpagato, viaggiavano con un bagaglio riempito di fame e poco altro. Non è dunque difficile immaginare perché queste migrazioni di braccianti fossero solite intonare l’omonima canzone de “La Leggera”, un brano che suona come la fantasia in musica di chi, almeno per il tempo del canto, sogna di potersi permettere una vita in cui si può tirare in causa la legge e perfino i santi per avere una giustificazione per non lavorare.

E infatti il termine “leggera” nel tempo è diventato un’espressione gergale per indicare sia la tragica levità della miseria che quella dei suoi più fidati rappresentati: vagabondi, perdigiorno, disoccupati e quindi “per estensione” stagionali e precari. In questa accezione la canzone rientra in una vasta tradizione a cui si ricollegano sia la famosa “lingera” lombarda che quelle delle altre regioni del centro-nord Italia. Tante sfumature diverse per indicare lo stesso microcosmo popolato dai dimenticati della società. Attenzione però a non farsi ingannare da quella che ha tutta l’aria di essere un irriverente inno alla nullafacenza: “La Leggera” può considerarsi a tutti gli effetti una canzone di lavoro in cui sono udibili gli echi della ribellione che di lì a poco sarebbe esplosa nella lotta proletaria. I

l brano, come spesso accade nella musica popolare, è conosciuto con molte varianti: nell’ambito di un canto vivo e collettivo che si trasforma viaggiando nel tempo e nello spazio, concetti quali “corretto” e “originale” perdono il loro valore di unicità. In ogni caso, in Toscana una delle versioni più amate è quella recuperata dalla ricercatrice e interprete Caterina Bueno.

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