Oltre al terrificante uso disgiuntivo di “piuttosto che”che appesta la nostra lingua odierna, sono molte le fastidiosissime espressioni che la nostra generazione sboccheggia in qua e in là, perdendo continuamente la preziosa occasione di stare zitta. Tra queste si annoverano “mai una gioia”, “ciao povery” e, in cima alla classifica, la mia preferita: “come se non ci fosse un domani”. Questa frase sprizzava menefreghismo e carta igienica srotolata dalle macchine in corsa, come in quella meraviglia di video degli Smashing Pumpkins che è “1979”. C’era qualcosa che dentro di te urlava: “adesso non mi importa un c***o perché domani stai sicuro che la sfango”. E sfidavi giorno dopo giorno l’interrogazione di latino classico, il controllore sul bus, i ritardi a casa, i sorpassi mentre stava per scattare il rosso, per vedere fin dove potevi spingerti, perché in cuor tuo eri certa che un domani ci sarebbe stato e non che saresti diventata la maestra suprema del catastrophizing. È questo il termine con cui gli psicologi contemporanei individuano l’attitudine dell’uomo post pandemico al volgere in scenari catastrofici la più banale azione quotidiana, al percepire una realistica assoluta sensazione di assenza del domani, #quandolafinzionesuperalarealta, tanto per dirne un’altra.
Questa dimensione, dove il tg è un film e la vita sembra il tg, è stata pronosticata dal (suicida) Guy Debord di in “La società dello Spettacolo” (1967), brutta come solo certi (parecchi) film americani sanno essere. Che non è memento mori nè carpe diem, è la quotidiana rassegnazione al “vabbé, moriremo tutti“. Ma se un domani davvero non ci fosse, e le bilance di tutto il mondo smettessero di funzionare, per favore che questa fine arrivi in un letto di margherita. Sì, al singolare.