E così, eccovi. Finito il film, guardati i titoli di coda fino al nome dell’ultimo tecnico audio, consumate le suole a forza di girare in tondo attorno a Palazzo Strozzi, poi dentro e fuori dal cortile. Le luminarie generose del centro danno materiale per prolungare le chiacchiere fino a rasentare l’inverosimile.
Siete come un po’ brilli; di zuccheri, di stimoli. Non guardate mai l’orologio. Anche i cellulari giacciono in silenzioso nelle vostre tasche impermeabili alle notifiche.
Vi è sembrato, al cinema, che le vostre braccia poggiate sullo stesso bracciolo avessero una reazione elettrostatica. Ad Arturo non è chiaro se fossero semplicemente i maglioni di lana combinati alle suole di gomma delle vostre scarpe Vans.
Entrambi dovete tornare a casa in tramvia: troppa pioggia per le bici, oggi.
Almeno adesso ha smesso. State virando verso la fermata, entrambi percependo l’approssimarsi dell’ora dell’ultima corsa. Parlate di estati in cui i vostri genitori vi hanno iscritti a interminabili campi estivi cattolici. Arturo segue un intero percorso mentale a bivi per cercare di dirimere la questione della fermata a cui scendere (“la mia e ciao? La sua e la accompagno?”).
Il dubbio è tra Aldo Moro e De André. Tra un democristiano e un anarchico. In un altro momento la cosa vi avrebbe fatto ridere. Arturo si chiede da sempre perché l’ingegnere della tramvia non abbia previsto un sistema per far suonare le porte solo all’atto della chiusura e non per tutti i lunghissimi secondi in cui restano aperte, evocando grida di ostinate arpie.
Dov’è che scendi te, Arturo? Arcipressi?
Aldo Moro. E tu?
De Andrè.
Già.
Inautentica sbadataggine. Sei arrivato. Il tuo cervello suona Verranno a chiederti del nostro amore.
“Io sono un anarchico”, blateri, prima di stamparle un bacio, mascherina su mascherina, e sgusciare via dalle porte in chiusura.
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