Marco è camaleontico: sul palco è ispiratissimo, raggiunge altezze notevoli di estensione, canta a pieni polmoni, dimenandosi, come anche sussurrando da seduto. Sembra sfuggire a qualsiasi etichetta: le sue influenze passano dalle eleganti melodie dei Police alle sofferte progressioni armoniche dei Radiohead; i pezzi che reinterpreta non dimenticano il rock americano di R.E.M. e Foo Fighters, rimeditati con grande raffinatezza. Il suo segreto? La yurta.
Se Bonje è il suo cognome storpiato che è diventato quasi una seconda identità, la yurta è “la capanna dei nomadi dell’Asia, di quei popoli che vagano di terra in terra senza altre radici se non quelle nella cultura che portano dietro come un bagaglio inseparabile, necessario”.
Ma la yurta sono anche e soprattutto i suoi notevoli musicisti, “una famiglia che mi ha accompagnato dal Washout tour (tour promozionale nelle lavanderie a gettone, ndr) al palco del Rock Contest”: Oscar alla batteria, Luca alla chitarra e Mattia al basso.
E il nomadismo è un concetto che calza perfettamente al caso: nomadismo musicale, abbiamo detto, ma soprattutto artistico. Bonje si occupa anche di arti grafiche e ha curato anche i propri videoclip; la sua prossima uscita, prevista per il 29 aprile su tutte le piattaforme digitali, è Portrayal of Illusion, una dichiarazione d’amore nei confronti dell’ibridazione tra le arti, anticipata da un video che “ha richiesto più giorni di riprese e una concentrazione continua sui movimenti della pittrice Erika Di Michele”.
Il lavoro è ispirato a Il ritratto di Dorian Grey di Oscar Wilde: “Non accettiamo il percorso naturale della vita. Questo ci rende ossessionati dalla nostra immagine, la immortaliamo continuamente, giorno dopo giorno, in fotografie. Mi piace pensarle come dipinti effimeri della nostra vita”.
Nel corso del video si osserva il making of di un ritratto, che è allo stesso tempo Bonje e Dorian: i prodotti multiformi del suo lavoro sono “una specie di art rock futuribile”.