Recentemente internet è stato sommerso di edizioni remixate in chiave dancefloor di un discorso di Giorgia Meloni. Alcune sue affermazioni sono diventate oggetto di omaggi con Myss Keta, Malgioglio, cori di chiese, confraternite e perfino i Teletubbies. Il contenuto si è replicato in infinite varianti prodotte in maniera pressoché anonima da utenti del web, secondo un procedimento memetico. Un meme è infatti un modello di comunicazione che vive in quanto continuamente reinventato.

Le origini del nome

Il nome nasce per analogia con il concetto biologico di gene: rispetto ad esso, non punta esclusivamente a riprodursi (come un contenuto virale), ma chiama ad una continua attività creativa. Un meme è composto da un’immagine e da un testo: la prima si mantiene; il testo invece viene modificato e diventa sempre più meta-ironico man mano che si accumulano i layer, gli “strati” interpretativi.

La guerra dei meme

Il nostro immaginario ne è pieno: ci è familiare pensare il nostro rapporto con la vita / la città / il lunedì / la dieta sotto forma di abbraccio di un impietosito Johnny Depp nei confronti di un bambino inconsolabile. Il meme è un prodotto di un’intera sottocultura e in quanto tale è stato studiato da diversi studiosi della comunicazione e del linguaggio, tra cui Alessandro Lolli, che gli ha dedicato il saggio “La guerra dei meme” (2017, Effequ). Per lui, l’idea base del meme è presente già nelle reaction e nelle emoticon (faccine che ridono, cuoricini, pollici alzati, etc.) perché riassumono interi concetti proprio grazie alla “natura impositiva dell’immagine”.

“Ho rubato quell’espressione a Barthes che la usa per definire il mito moderno. I miti si comportano come immagini perché nascondono tutta una serie di significati e relazioni logiche sotto espressioni ad alto impatto emotivo. I meme sono molto simili ai miti perché portano dentro di loro tutta una storia di usi e contro usi precedenti che servono a veicolare nuovi contenuti”.

Non a caso inizialmente l’utenza era un pubblico esperto e severo nel giudicare l’ironia di un meme; oggi invece sono protagonisti della comunicazione globale. Realizzarne uno efficace vuol dire sapersi riferire all’accezione d’uso di un’immagine, senza esagerare con le stratificazioni dei diversi significati (come i dank meme, per veri intenditori): rispetto a una comunicazione esclusivamente verbale “il cervello fa meno fatica ma il dato interessante è che la quantità di informazioni e suggestioni che riceve non è proporzionale a questa fatica. Spesso il riso è il risultato di tale operazione”.

Non sfugge il potenziale politico di tutto ciò: “il meme è un’efficace macchina di propaganda visiva caratterizzata dalla ricorsività dei suoi simboli e dalla pressoché infinita capacità di interazione degli stessi”, ed è innegabile il ruolo svolto durante molte campagne elettorali, tra cui quella di Trump.

Insomma, i meme sono tanto divertenti quanto efficaci.

D’altra parte ce l’avevano detto gli anarchici dell’Ottocento: “una risata vi seppellirà”.