La mela è quel puntino – dai colori di un semaforo – che si adagia tra le parole “strafogo” e “digiuno”. Tutte le diete iniziano con una mela che, a saltelli e spintoni, scansa la merenda di metà mattinata.
Diventate subito amiche al banco della frutta e verdura perché è tonda simpatica come te e ti dice “risolverò tutti i tuoi mali, potrai mettermi in borsa e non annerirò, potrai non sbucciarmi e non profumo di niente” – ma questo è l’inizio di una storia triste.
“Mi sono portata una mela” è la confessione di chi ha intrapreso una grigia strada al patibolo che si chiama speranza di perdere peso.
Ma la mela è anche quella cosa che muore nel frigo fin quando non decidi di dargli una fine più dignitosa del cestino dell’umido, soprattutto perché nella storia sembrano esser stati dei frutti decisamente persuasivi – un po’ il fascino della gatta morta.
Ti guardano dal cassetto della frutta con lo stesso sguardo con cui guardarono Adamo (e il resto della storia la conoscete) e con lo stessa faccia con cui ingannarono Biancaneve, solo per dirti “Non ci porti in ufficio con te?”.
E tu, che a loro insaputa rapini i distributori automatici a suon di PIPAS, pur di farla finita con questo senso di colpa che si protrae per settimane ogni volta che apri il frigo, un pomeriggio di pioggia le sbatterai a fettine in forno nel nome di una dignità fatta di pasta brisé e un pizzico di cannella, e farai felice loro e ancor di più la tua pancia.