di Lespertone
–
L’arrivo dei Mudhoney a Firenze, in data unica in Italia.
A venticinque anni da ‘Touch Me I’m Sick’.
E tutto è come in quegli anni. Nel bene.
Aprile, tempo di Record Store Day e di ‘Touch Me I’m Sick’. Sono passati venticinque anni da quando la Sub Pop di Seattle mise il suo primo numero di catalogo su una produzione e da quando quel singolo sconvolse il mondo rock alternativo. Un po’ come fare gol da centrocampo o un vincente sotto le gambe a tennis. Uno di quei jolly che capitano una volta nella vita. E bisogna saperli sfruttare. Ora, bisogna capire se i Mudhoney quel jolly, son riusciti a sfruttarlo o meno. O più che altro, se hanno voluto effettivamente sfruttarlo. La storia dei Mudhoney, il cui nome è un omaggio ad una pellicola a luci rosse di Russ Meyer, nacque sui banchi di scuola, tra cazzeggi e strane performance in classe. Lì si incontrarono Mark Arm e Steve Turner che, dopo appunto le prime ingenuità adolescenziali con un improbabile progetto a nome Mr Epp. And the Calculation, si misero a fare le cose un po’ più sul serio con una nuova avventura, i Green River. A loro si aggiunse il batterista Alex Vincent e, subito dopo, i futuri Pearl Jam, Stone Gossard e Jeff Ament. Nonostante una line-up tutt’altro che solida – Turner se ne andò quasi subito – non si possono non segnalare l’EP “Dry As A Bone” e l’album “Rehab Doll”, che adesso sono disponibili assieme su un unico CD. Non siamo neanche al 1987. Proprio in quell’anno, i Green River si sciolgono mentre Arm e Turner si re-incontrano. Nascono i Mudhoney ed arriviamo alla ‘Touch Me I’m Sick’ di cui sopra, contenuta poi nel clamoroso mini LP di debutto “Superfuzz Bigmuff”. Entrambe le copertine diventeranno storiche, quella del singolo è il famoso cesso, mentre quella dell’album diverrà marchio di fabbrica di tutte le produzioni Sub Pop, headbanging, foto in bianco e nero e palchi devastati. È puro rock’n’roll, garage, di matrice Stooges. Solo che non siamo a Detroit (o dintorni) e tutto ciò sta accadendo a Seattle. Il resto è storia più o meno nota a tutti. I Mudhoney diventarono il gruppo più rappresentativo dell’etichetta ed i Sonic Youth se ne innamorarono portandoli in tour. Quel tipo di suono, sporco, grezzo, urlato, viene chiamato Grunge e l’industria discografica che conta ci annusa un bel po’ di dollaroni. I Soundgarden, brevemente su Sub Pop con qualche 7”, vengono messi sotto contratto da A&M, i Nirvana dalla Geffen, gli Alice in Chains dalla Columbia ed i Pearl Jam dalla Epic. Ed i Mudhoney? Finiscono su Reprise che cercava di non rimanere al palo. Eccolo qua il jolly. Sfruttato? Non sfruttato? Non si sa. Si sa solo che i Mudhoney ci arrivano dopo una manciata di album eccellenti, tra cui “Mudhoney” (1989) e “Every Good Boy Deserves Fudge” (1991), e che le uscite major non spostano di una virgola né il sound né l’attitudine della band. Sì, vengono aggiunti un po’ di fiati, tutte le band garage, rock’n’roll lo fecero. Anche se di dischi belli in quel periodo ne sono usciti, eccome. Perché “Tomorrow Hit Today” è un gran disco. Ma niente per venire incontro a qualcuno. Non è dato sapersi se per volontà o altro. Il fatto è che, tra tutte le band del giro di Seattle, i Mudhoney sono stati gli unici a non capitalizzare quanto avrebbero potuto. E questo ce li fa amare più del necessario. Perché sono sempre lì. Hanno trovato – nuovamente su Sub Pop ad inizio millennio con “Since We’ve Become Translucent” – la loro giusta dimensione e dal vivo in pochi sono come loro. Per questo ogni nuova uscita della band di Mark Arm è attesa per avere quelle conferme di cui tutti noi abbiamo bisogno. Ed avevamo tremendamente bisogno di un nuovo album, “Vanishing Point”, e di rivederli dal vivo. Detto, fatto.