di tommaso chimenti
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A distanza di un anno tornano a Firenze, e sempre sul palco del Teatro di Rifredi, il più aperto alle ospitalità internazionali, i due musicisti, uno francese, Laurent Cirade, e l’altro rumeno, Paul Staïcu, che compongono la band “Duel” (lunga tenitura dal 4 al 14 aprile). Ridere con la musica, sembra facile. Un gioco da ragazzi, si dirà. Ma tenere una drammaturgia sullo spartito, tra divertimento, azione, citazioni colte e popolari e rincorse, tra mimo, echi di Charlie Chaplin, Stanlio e Ollio ed un tocco da Banda Osiris, non è affatto semplice.
Il risultato è elettrizzante: ovazioni da concerto, battimano chiassosi, ululati da lupi mannari, sorrisi a trentasei denti. I due hanno tra le proprie cartucce un vastissimo repertorio, dalla classica al jazz, dalla contemporanea al pop, che mixano e miscelano in continui incastri, scarti gigioneggianti e medley compulsivi e scivolamenti fool tra generi diversi con una tecnica fuori dal comune. La loro fisicità è da stereotipo e da cartolina: il grande e grosso al violoncello (sembra John Goodman ne “Il Grande Lebowsby”), con voce roca e tenorile, un po’ Mario Biondi un po’ Luis Armstrong, un po’ Barry White (che poi effettivamente interpreta successivamente), molto soul e jazzato, e il piccoletto esile e magro funambolo del pianoforte. Obelix e Asterix, Bud Spencer e Terence Hill, per certi versi anche Franco e Ciccio.
In un continuo scambio e incrocio tra suoni, gag buffe, sketch e pentagrammi conosciuti, il duello prende corpo, la competizione tra i due, per primeggiare sul palco davanti alla platea, si accende. Duel che è due, è un neologismo che rimanda al duello, ma anche al fuel (benzina in inglese che ci porta con la mente ai primi giochi elettronici da Commodore 64 di auto e velocità) perché quello che vediamo è una pirotecnica evoluzione magica di spartiti legati alla fisicità opposta dei due interpreti che si completano, fanno scintille, cozzano, s’azzuffano, per poi, improvvisamente, ritrovare assonanze, alchimie e accordi d’ensemble.
La corsa attorno al pianoforte suonando un campanello da reception sembra il gioco della bandierina sulla spiaggia o il gioco dell’“Americana” a ping pong. Ecco anche spuntare un piano piccolo come quello che suonava a testa china e capelli sugli occhi l’impegnatissimo Schroeder, l’amico di Charlie Brown. Diventa una girandola di risse musicali tra velocità d’esecuzione, scherzi all’altro concertista per portarlo a sbagliare. Quasi un “Rumori fuori scena” ma tutto esposto dove i due si colpiscono e tentano di annientarsi (esaltandosi a vicenda, invece) per poter ricevere da soli l’applauso ristoratore della platea.
Sembra di vedere adesso Fred Flintstone e l’amico Barney, l’orso Yoghi e Bubu, Gassman e Tognazzi. C’è un qualcosa da Comiche, a tratti rimanda ai lazzi e giochi di Bollani con Riondino. Archetto e polpastrelli, s’intrecciano le mani sugli ottantotto tasti bianchi e neri. È un concerto in piena regola, dove s’agganciano Bach e i Deep Purple, Beatles e Beethoven, Chopin e Morricone, i Bee Gees e Santana, Satie e Bob Marley, finendo con i Village People e Lou Reed. “Stayin’ alive” va a braccetto con “La vie en rose”, “Guerre Stellari” con “Smoke on the water”, gli Spaghetti Western con “La bamba”.
Riescono a suonare con l’archetto una sega di grandi dimensioni in acciaio, il pianoforte da sdraiato senza riuscire a vedere i tasti, un filo di nylon, come fossero una sarta che cuce un abito invisibile, o facendo un esame medico-anatomico di colonscopia al violoncello. Dal charleston al sentimentale danzando il ballo del mattone con la donna-viola fino alla nascita del baby-violino ovviamente in pannolino. L’ironia corre sulle sette note. Fermarla è una mission impossible. Lo dicevano anche i Pooh.