Saverio Lanza, compositore e produttore discografico, ha avviato un progetto di ricerca sulle nenie cantate dai padri in varie culture del mondo. Ne abbiamo parlato con lui.

Scavando tra i nostri primi ricordi d’infanzia, quasi di sicuro comparirà la scena delle nostre madri o delle nostre nonne che ci cantano delle ninnenanne. Mio nonno aveva un talento incredibile nel farmi addormentare, ma il suo era un metodo silenzioso. Mi prendeva, mi poggiava sulla spalla e iniziava a ciondolare lentamente, col suo passo pesante. Crollavo all’istante ma di questi momenti non ho alcun ricordo sonoro, sono immagini silenziose. Ricordo, invece, la canzone che mi cantava mia nonna, si intitolava Evviva il mio papà ed era la sigla del programma Rai Ci vediamo in TV con Paolo Limiti. Era un’esaltazione decisamente patriarcale della figura paterna e delle sue capacità di conquista amorosa. Il compositore fiorentino Saverio Lanza, con il suo progetto Le voci dei padri, ha provato a ribaltare l’immaginario comune sul rapporto tra le figure paterne e le ninnenanne.

Ci racconti come è nato il tuo progetto?

«Tutto inizia dal mio disco del 2007 Madrelingua, in cui ho registrato ninnenanne di donne immigrate che non fossero cantanti professioniste, adattando l’orchestra alle distorsioni e agli errori delle loro voci.Nell’ultimo anno ho riflettuto sul fatto che all’epoca avessi scelto solo donne per cantare queste canzoni, nonostante io stesso sia padre. Così mi sono messo alla ricerca di nuovi contatti per registrare uomini di diverse nazionalità, con attenzione particolare alle minoranze e alle lingue che stanno scomparendo, nel tentativo di abbattere il tabù delle società patriarcali per cui gli uomini non cantano canzoncine ai loro figli, per lo meno non in pubblico. Nonostante alcuni retaggi delle culture patriarcali, ho ricevuto molta disponibilità e voglia di partecipazione dalle persone con cui entravo in contatto».

Crediti Monia Pavoni

Come ti sei mosso per trovare persone? Hai condotto degli studi teorici prima?

«La prima persona a cui ho pensato è stato il mio medico, che è di origine Arbëreshë, una popolazione proveniente dall’Albania che si è radicata soprattutto in Calabria intorno al 1500 e parla una lingua simile al latino dell’epoca. Lui non voleva cantare ma sono arrivato ad altre persone Arbëreshë tramite Badara Seck, un cantante senegalese che vive a Firenze. Tramite un’amica antropologa, poi, ho incontrato tantissime altre persone da ogni parte del mondo. Ora sto capendo che mi interessano anche ninna nanne regionali italiane, purché siano maschili. Per ora il mio approccio è puramente artistico, ma non mi dispiacerebbe avere un approccio più scientifico e di ricerca in futuro. Il lavoro che ho fatto finora ha portato a una performance prodotta da Fabbrica Europa e eseguita al Semiottagono delle Murate, con l’intervento di Damiano Meacci, insegnante di musica elettronica al Conservatorio di Firenze, e della sua classe. Ho cercato di sonorizzare il Semiottagono tramite la stratificazione delle voci che avevo raccolto:in questo modo un luogo di prigionia si trasformava in un luogo di evasione. Cercavo di alternare questo approccio magmatico contemporaneo, queste voci sovrapposte e armonizzate, agli interventi dal vivo miei e di altri cantanti, totalmente acustici e senza amplificazione. È un viaggio attraverso questi suoni: quand osi canta a un figlio si canta in maniera diversa rispetto sia a quando sei da solo, sia a quando ti esibisci:davanti a un figlio la tua voce non può mentire, devi essere te stesso».

Tutte le persone a cui chiesto di cantare sono padri? Sono affiorati i ricordi di quando loro erano bambini?

«Il rapporto tra la dimensione paterna e quella filiale in questi esperimenti è reciproco. Quello che io stesso canto a mio figlio deriva da quello che ho ascoltato, arricchito da nuovi contesti e linguaggi musicali. Questi canti legano le generazioni: in alcune culture e in certe fasce d’età, laddove il patriarcato è più radicato, è soprattutto la voce delle madri che è radicata nei ricordi. All’inizio volevo che fossero i figli delle donne dell’album del 2007 a cantare».

Hai conosciuto durante il tuo progetto contesti sociali o culturali in cui le figure maschili sono più centrali nel rapporto di cura con i figli?

«Sì, mi sono accorto che ci sono suoni e oggetti musicali che traggono proprio spunto da contesti sociali differenti, penso al fischio o alle rappresentazioni simboliche di alcuni animali. È la quotidianità a costruire le ninna nanne, perciò sono specchi delle società in cui nascono. Ho conosciuto un ragazzo di un’etnia particolarmente martoriata nel suo Paese d’origine che voleva cantare insieme al padre, ma lui si è rifiutato. Non stava nell’orizzonte culturale di quell’uomo scoprirsi in quel modo. Quando feci Madrelingua erano la nostalgia e la commozione gli elementi principali del disco. In questo lavoro ho fatto emergere molto di più la sorpresa, l’idea di fare qualcosa di nuovo o addirittura per la prima volta.Ho conosciuto un uomo olandese anziano che mi ha confessato di non aver mai cantato quella ninnananna in tutta la sua vita».