di Lorenzo Hofstetter

All’interno del programma di contè.sto 2025, il festival che anima Empoli con incontri dedicati alla storia contemporanea, Miguel Gotor interviene con una riflessione dal titolo “Come e perché si sceglie la lotta armata”. Storico e saggista tra i più autorevoli del panorama italiano, Gotor esplora le dinamiche che portano una parte della società a radicalizzarsi, tra ideologia, delusione e violenza. In vista del suo intervento, gli abbiamo rivolto un paio di domande.

Nel suo intervento lei riflette su ‘come e perché si sceglie la lotta armata’. Ma cosa qualifica, storicamente e politicamente, il ricorso alla violenza come strumento legittimo di risoluzione dei conflitti? Esiste un confine riconoscibile tra violenza rivoluzionaria e violenza criminale, tra dissenso armato e terrorismo?

La legittimità della violenza è un problema di ordine giuridico, di ordine morale, e quindi, per quanto riguarda il mestiere di storico, sia il diritto sia la moralità sono concetti calati nel tempo, che seguono le onde delle tensioni, dei conflitti della storia. La storia è scienza del contesto, dei rapporti di forza. In una stessa vita si può essere legalmente considerati dei terroristi e passare la propria giovinezza in prigione, per poi addirittura diventare capi di uno Stato (penso a grandi personalità come Sandro Pertini o Nelson Mandela). Questo vuol dire che la storia non è sempre uguale a sé stessa: il conflitto è fondamentale, si vince e si perde. I vincitori colonizzano il linguaggio, gestiscono i discorsi, creano gerarchie di valore. La lotta armata è l’aspetto minoritario di un fenomeno più grande, di violenza politica, che ha per esempio caratterizzato l’Italia dalla fine degli anni ‘60 fino ai primi anni’80. C’è stata una violenza politica non armata ma diffusa, che ha prodotto feriti e morti nelle scuole, nelle università, lungo un doppio crinale ideologico: fascismo e antifascismo, comunismo e anticomunismo. Quello è stato un fenomeno diffuso, giovanile, che viene poco studiato e che sostanzialmente è stato rimosso, sia dalle vittime che dai carnefici. Da coloro i quali hanno utilizzato picconi, martelli, chiavi inglesi… E questo tipo di violenza politica è diversa dalla lotta armata: quest’ultima prevede generalmente la clandestinità, è una scelta estremamente radicale, totalizzante, che prevede di ferire o uccidere un avversario che si considera un nemico, un nemico che si considera un simbolo, un simbolo che in quanto tale è da battere. Parte dal presupposto che si possa morire oltre che uccidere, che si possa essere ferito oltre che ferire. Insomma, c’è davvero una sostanziale differenza – quantitativa e qualitativa – tra la violenza in quanto tale e quella a sfondo politico. Il discorso è ancora più complesso se si parla dello stragismo, che non ha nulla a che vedere né con la violenza politica né con la lotta armata. Lo stragismo è un reato particolarmente abietto, particolarmente codardo. In Italia ha avuto essenzialmente una matrice neofascista e neonazista. Ci sono stati numerosi e tragici attentati. La differenza, rispetto alla lotta armata, è che si colpisce il cittadino in quanto cittadino. Non c’è un bersaglio che viene individuato in ragione della sua funzione sociale (il magistrato, il professore universitario, il politico, l’avvocato). No, si colpisce in modo indiscriminato la cittadinanza che si trova su un treno, che è adunata in una piazza. E chi mette la bomba, la mette di nascosto, poi si allontana dal luogo del delitto e si gode la deflagrazione e le conseguenze terroristiche di quest’atto.

foto di Gianni Nucci (Comune di Empoli)

Negli anni Settanta la violenza politica si manifestava attraverso forme organizzate e ideologicamente strutturate, come le Brigate Rosse o Prima Linea. Oggi, invece, sembra prevalere una radicalizzazione individuale, frammentata e spesso alimentata da pulsioni personali, come nel recente attentato mortale contro Charlie Kirk. Secondo lei, questa trasformazione segna la fine della ‘lotta armata’ come categoria storica, o ne rappresenta una nuova declinazione? E cosa ci dice, in fondo, sul rapporto tra dissenso, violenza e memoria politica nella società contemporanea?

In questo caso stiamo citando gesti individuali che hanno una tradizione storica, ottocentesca, ad esempio anarchica. C’è l’idea ingenua che, eliminando una singola persona, venga meno un sistema politico, ideologico, valoriale, culturale, che accompagna un processo storico. Questa è una fase, a mio parere, infantile, ecco: una sorta di regressione nell’uso della violenza politica. Sia lo stragismo sia la scelta consapevole della lotta armata in un’organizzazione clandestina sono scelte estremamente più complicate da prendere, più complesse. Nel caso specifico, quello statunitense, c’è una lunga tradizione dell’attentato singolo. In una società che è estremamente armata a livello civile, con una grande diffusione di fucili, pistole, carabine, la storia, fin dai tempi di Lincoln, è caratterizzata dal frequente omicidio dei politici. Ho letto che la carica di presidente degli Stati Uniti è considerata una delle mansioni a più alto rischio di morte al mondo (nda: statistiche alla mano, il 9% dei presidenti USA è stato assassinato durante il mandato). Con poi il corollario, che accompagna sempre, delle teorie complottiste, sia nel caso in cui il bersaglio viene colto in pieno (Lincoln o Kennedy), sia nel caso in cui viene sfiorato, vale a dire Trump recentemente. Questo, però, è un aspetto diverso, secondo me: il gesto del singolo è meno complesso e anche meno storicamente interessante. Ma, sia nel caso della lotta armata che dello stragismo, si pone sempre con urgenza il problema del consenso, vale a dire dell’approvazione di cui l’atto violento gode (o meno) nella società, delle aree di contiguità che proteggono la violenza. Questo è probabilmente un problema più importante, rispetto alla singola carta di un mazzo ben più grande.

foto di Gianni Nucci (Comune di Empoli)

Ci sono, oggi, degli eredi del brigatismo rosso e dello stragismo nero? Esistono dei nessi concettuali fra queste tradizioni e gruppi oggi definiti genericamente terroristici? A livello mediatico, tale definizione include spessissimo anche realtà complesse e storicamente molto rilevanti, come ad esempio Hamas (Palestina), il PKK (Turchia) e l’IRA (Irlanda del Nord), ma anche Al-Qaeda (internazionale), Boko Haram (Nigeria) e le Tigri del Tamil (Sri Lanka).

In generale direi di no: ho difficoltà a fare equiparazioni e comparazioni a livello mondiale, perché sono realtà eccessivamente diverse e anche lontane dal punto di vista temporale. È comunque possibile fare una riflessione su gruppi come appunto l’IRA in Irlanda, o l’ETA in Spagna, rispetto alla tradizione italiana delle Brigate Rosse. Sono organizzazioni politiche che praticano e hanno praticato la lotta armata, che, ripeto, prevede il ferimento e l’omicidio politico, su una piattaforma politico-ideologica che sia nel caso dell’IRA, sia nel caso dell’ETA, sia nel caso delle Brigate Rosse, aveva sempre un braccio armato e un braccio politico. Questa doppia anima e questo doppio livello, secondo me, può rendere accettabile anche la comparazione con Hamas. Naturalmente, chi lavora per la pace, fa di tutto per valorizzare le parti politiche di questa organizzazione, così da silenziare quelle armate. Nel caso dei baschi e degli irlandesi, ciò è effettivamente avvenuto, ci si è riusciti. Rappresentanti che hanno praticato la lotta armata si sono ritrovati in Parlamento. Evidentemente perché sono stati votati e quindi, evidentemente, perché godevano di un consenso. Chi vuole la pace lavora per la valorizzazione delle parti politiche e la marginalizzazione di quelle armate. La pace, tuttavia, può anche non essere voluta da parte di quanti traggono vantaggio da una polarizzazione terrore-antiterrorismo: c’è un peso enorme dell’uso politico del terrorismo, che può di fatto essere manipolato e usato anche dallo Stato per i propri scopi. Penso, in generale, al “terrorismo di stato”.

 

foto di copertina: di Gianni Nucci (Comune di Empoli).