di Gaia Carnesi

Angeli Caduti in mostra a Palazzo Strozzi è un viaggio sensoriale tra pittura, mito, filosofia e letteratura.  In un’alchimia di elementi fusi in un’opera unica, l’artista tedesco Anselm Kiefer rende protagonista la densa materia stratificata. Acrilico, piombo, zinco, semi convivono su imponenti superfici dove foglie d’oro applicate su tele vibrano al passaggio dell’osservatore, ricordandoci che sono opere vive. L‘artista ha scelto la distruzione come metodo per fare arte esponendo le superfici a radiazioni e la malattia a cui li ha sottoposti li modificherà nel tempo.

La Caduta dell’angelo accoglie i visitatori nel cortile del Palazzo Strozzi come il prologo in una tragedia greca. Un metafisico arcangelo Michele schiaccia gli angeli ribelli sul fondo del quadro, in un vortice oscuro. Il loro tentativo di insurrezione genera distruzione, in un’alternanza di luce ed ombra. Questi angeli caduti rappresentano la metafora del genere umano, vittima delle sue stesse fragilità, dei conflitti bellici passati e presenti ma anche di una battaglia interiore di animi irrequieti.

Mi è stato suggerito di sentire l’odore delle opere avvicinandomi alle tele: in questo modo la materia ti pervade non solo negli occhi ma nel respiro, permettendo di percepirne l’essenza e l’impulso. Con questo prezioso consiglio lasci quelle sale meno affamato, perché è come aver vissuto un pasto pittorico. La sala degli specchi è il culmine di un percorso intenso che avvolge lo spettatore con sessanta opere appese tra pareti e soffitto. Qui l’osservatore viene assorbito in uno spazio ovattato, dove un tavolo specchiato svela nuovi dettagli sfuggiti a prima vista, come una lente d’ingrandimento.

Attraverso l’arte lo specchio si eleva da strumento d’interazione a linguaggio di autoanalisi. Esso ci ricorda di non perderci, di non smarrire la propria identità. Il quadro, come una superficie riflettente, permette di parlare con noi stessi e non puoi nasconderti, perché alle tue spalle ne troverai un altro che ti incalza con nuove domande. Lo specchio nell’universo artistico non è solo connessione con lo spettatore, ma un’analisi dell’individuo che si rivela nelle sue qualità e caratteristiche più profonde.

La nostra immagine è protagonista nell’arte contemporanea e se nella pittura dello scorso millennio Tiziano con la sua Venere, Velàzquez con Las meninas, Escher e il suo sferico autoritratto distorto si limitavano a scorci di riflessi per svelare nuovi dettagli e ospiti nascosti, oggi si utilizza in chiave sociale. Jeff Koons, Anish Kapoor, Michelangelo Pistoletto e il cubo specchiante, Ai Weiwei e i suoi selfie sono solo alcuni tra gli artisti ospitati da Palazzo Strozzi che hanno contribuito a rendere iconico l’utilizzo di questo mezzo come strumento di auto narrazione. Ogni epoca ne ha fatto uso per trasmettere un concetto, ma la sete di condivisione e il protagonismo sono figli del nostro tempo.

Il confine tra propaganda e comunicazione diventa sottile: quanto c’è di strategico nell’uso del riflesso e del conseguente racconto fotografico in una logica commerciale? Celebriamo l’arte, gli autori o noi stessi? Ne è un esempio l’opera site specific To breathe-constellation dell’artista coreana Kimsooja attualmente in mostra a Parigi, dove il pavimento, le vetrine e un intero piano della Bourse de Commerce sono stati coperti di specchi invertendo l’ordine delle cose. Il risultato è totalizzante e disorienta l’osservatore tuffandolo in un metaverso e coinvolgendolo in una sfida: osserveremo più il riflesso dello spazio infinito o di noi? Infondo, come Anselm Kiefer sostiene, «il più grande mito è l’uomo stesso».

 

Crediti fotografici: Ela Bialkowska, OKNO studio © Anselm Kiefer