Venerdì 26 maggio la band fiorentina ⁄handlogic arriva sul palco della Limonaia di Villa Strozzi per presentare il suo nuovo lavoro ESSERI UMANI PERFETTI, un concept album sulla crescita attraverso l’analisi e sul diventare adulti tornando bambini, in compagnia dei Nothing For Breakfast all’interno delle serate di Fiore sul Vulcano. Ne parliamo con Lorenzo Pellegrini (voci e chitarre) che ha scritto e prodotto il disco.

La prima cosa che si nota ascoltando il vostro nuovo lavoro è il cambio della lingua, dall’inglese all’italiano. Come mai questa scelta?

È successo che negli ultimi concerti del vecchio ciclo, avessi iniziato a sentire una specie di distanza con chi ci veniva ad ascoltare, come se ci fosse un muro con il pubblico, principalmente dovuto al cantare in inglese: non riuscivo a comunicare ciò che volevo, e ben presto questa sensazione si è trasformata in frustrazione. Le parole hanno iniziato a sembrarmi prive di senso, completamente mascherate dal loro suono e da un significato sempre più distante. Per anni poi la scelta di cantare in inglese era stata dettata più dall’inerzia, dal fatto di aver “sempre fatto così” e aver ascoltato per tutta la vita musica quasi esclusivamente anglofona. Così a un certo punto, quasi senza rendermene conto, ho provato a mettere in musica ciò che usciva fuori dai diari – parole di analisi e di terapia – e passare alla lingua madre è diventata una scelta necessaria e obbligata. Non facile, perché è stato come mettersi a nudo per la prima volta e reimparare a scrivere le canzoni con nuovi suoni e una nuova metrica, però da quel momento è diventata l’unica cosa giusta da fare.

La vostra musica negli anni è stata un incessante e intelligente progredire. Perché, invece, il concept di ESSERI UMANI PERFETTI è quello di tornare indietro?

Perché l’unico modo per iniziare a diventare adulto per davvero, per me, è stato tornare bambino. Analizzare ciò che è stato, come ho vissuto alcuni momenti chiave della vita, e soprattutto immergermi nuovamente in uno stadio primordiale, dove tutto è nuovo e tutto è perfetto, per poter creare liberamente. Mi sono reso conto che il modo migliore in cui potevo scrivere senza paura e senza blocchi auto-imposti era mollare la mia mente adulta, per quanto possibile, e gettarmi in una dimensione infantile. La domanda per risolvere un frammento musicale inchiodato, una frase che non usciva, un suono che non mi convinceva, è spesso stata “Cosa farebbe Lorenzo bambino in questo caso?” E la risposta era inevitabilmente giusta, perché andava ad incontrare un desiderio reale privo di troppe sovrastrutture, che risponde in maniera infantile ma estremamente saggia ad una modalità binaria: lo voglio/non lo voglio, mi piace/non mi piace, questo gioco mi diverte/ora basta. E anche per questo motivo i testi, nella maggior parte dei casi, sono scritti dal punto di vista di un bambino, con filastrocche e cantilene, oppure dal punto di vista di un adulto che prova a spiegare a un bambino con parole dolci e semplici qualcosa le questioni più complesse e inquietanti della vita. Si spera che comunque la direzione musicale non sia anch’essa stata un passo indietro (ride), perché per quanto riguarda quell’aspetto la volontà è sempre quella di spingere in avanti in qualche modo, di forzare i contorni della canzone.

 

Diverse anime che si incontrano per contaminarsi e sperimentare senza troppi compromessi. Quanto è difficile questo processo?

Per continuare il discorso di prima, il tentativo è stato quello di rispondere ad un’esigenza in realtà molto semplice: cosa mi piace sentire nella musica? E la risposta è altrettanto semplice: ci sono alcune progressioni di accordi, alcuni suoni, alcune scelte strumentali e timbriche che sono scritte nel dna di ciascuno di noi, motivo per cui il brano X ci fa piangere e il brano Y rimane in superficie e non ci tocca minimamente. È ovviamente una collezione di tutto quello che abbiamo ascoltato in tutta la vita – dalla pancia in poi -, ma mi piace pensare che ci siano dei fili magici che ci connettono con i suoni e le parole che risuonano a livello individuale, che non è possibile (e non avrebbe senso) spiegare razionalmente.

Probabilmente la parte più difficile è individuarli con chiarezza e provare a metterli insieme in una forma compiuta, ma dal momento in cui mi sono lasciato la possibilità di farlo, diventa davvero un esercizio di pura gioia e terapia mettere in musica tutto ciò che ti piace e che ti passa per la testa e per il cuore, per quanto estremo e diverso possa essere e per quanto possa non rientrare in nessun chiaro riferimento o schema.

È per questo che nel disco ci sono momenti sussurrati folk, ci sono momenti al limite del metal e dell’elettronica più violenta, c’è la manipolazione estrema del suono iperprodotto e ci sono le canzoncine chitarra e voce, c’è la musica black, ci sono i Beatles e i Radiohead, c’è Joni Mitchell e James Blake, c’è Battisti e i King Crimson.

L’unico compromesso che ci siamo dati per non andare completamente fuori dal tracciato, è rimanere dentro la canzone, dentro una parvenza di strofa-ritornello-coda, ed è una sfida che rimane sempre incredibilmente stimolante.

Pensando al chiacchieratissimo nuovo album degli Studio Murena, cosa ne pensate di questa scena in ascesa che, come voi, parte dagli studi jazz per andare verso qualcosa di oggettivamente diverso?

Purtroppo ancora non ho sentito l’album di cui parli, ma per quanto riguarda il discorso più generale, in effetti è curioso vedere come tantissimi della nostra generazione partano da studi accademici per poi approdare verso forme non considerate canonicamente “jazz”. Il problema/soluzione sta tutto lì: credo che la lezione più importante che il linguaggio e la filosofia del jazz ci possa dare (al di là di una solida preparazione tecnica e teorica), è l’amore per la contaminazione e per tutto ciò che la musica può essere. Ciò che il jazz ha sempre fatto è stato inglobare i suoni e le istanze del proprio tempo, per trasfigurarle e trasformarle in nuovi linguaggi. Proprio per questo è impossibile categorizzare (da ormai diverso tempo) i generi musicali, e soprattutto una diffusione effimera e sfuggente come quella di jazz: ciò che si impara nei conservatori è una selezione arbitraria di un certo tipo di linguaggio storicizzato del jazz, che in qualche modo si ferma a più di mezzo secolo fa, e per quanto possa essere utile, questa modalità lascia il tempo che trova; ciò che rimane in profondità è l’amore per la libertà espressiva e l’entusiasmo di uno sguardo sempre puntato verso il futuro, una postura che ci può insegnare molto, a prescindere dal risultato estetico che ne può derivare.

 

Venerdì 26 maggio
Fiore sul Vulcano presenta “Notti sul Vulcano”:
/Handlogic (Live)  21.30
Nothing For Breakfast (Live)  23.00
Helter & Skelter Dj set
La Limonaia, Via Pisana 77, Firenze
Ingresso Gratuito