Suor Valentina Sala è nata e cresciuta ad Arcore, e mai avrebbe pensato di finire a Gerusalemme. Non pensava nemmeno di farsi suora, a dire il vero. Aveva scelto di diventare ostetrica: aveva sentito che era la sua strada, a 16 anni, quando era un’adolescente e sua madre partorì la sua sorellina. Certo, la sua era già una vita di fede, frequenta la parrocchia insieme al fidanzato, segue un percorso di spiritualità. Pochi giorni prima della laurea cerca un luogo in cui poter stare in pace, tranquilla a studiare. Si trasferisce per qualche giorno presso una struttura religiosa, dalle suore di San Giuseppe dell’Apparizione, una congregazione missionaria fondata in Francia. Per prima cosa pensa: “che sfigate, saranno tutte vecchie”. Fa in tempo a ricredersi e a scoprire che in realtà non è così male. Finisce gli studi e la sua vita cambia, perché nel frattempo ha sentito un’altra chiamata. Di lì a poco Valentina diventerà Suor Valentina.
La congregazione la manda a Firenze, a Ponte a Mensola. È il 2005, si occupa delle attività coi giovani, che, a dire il vero, sono pochi: trova una mappa del quartiere e con la bicicletta va a cercarli a casa. Vivrà 5 anni tra Firenze e Fiesole, poi due anni in provincia di Lucca. Ama la Toscana, l’accoglienza che ha trovato. Durante le estati visita le missioni a Tunisi e ad Aleppo. Scopre che a Gerusalemme Est c’è un ospedale della congregazione che sta per aprire un reparto di maternità. La sua vita cambia di nuovo, radicalmente. La sua superiora si ricorda di lei e dei suoi studi e Valentina viene spedita nella Città Santa a seguire il progetto.
“Ero spaventata, sia perché erano passati anni dall’università, sia perché il contesto non era dei più semplici. Non parlavo inglese, né arabo. Ho dovuto imparare a comprendere che potevo anche non essere capita. E qua è facile non essere capiti”.
L’ospedale è il St. Joseph, fondato nel 1956, l’unico palestinese in città. Prima ce n’era un altro, il St. Louis, che però dopo il 1948 è rimasto in territorio israeliano, e quindi di difficile accesso, senza permessi speciali, per la popolazione palestinese. La geografia di quei pochi chilometri quadrati è un rompicapo impossibile da risolvere.
Mentre il nuovo reparto del St. Joseph è in costruzione, Suor Valentina visita gli ospedali palestinesi di Betlemme, Nazareth e Ramallah. Visita anche un ospedale israeliano. Da entrambe le parti osserva stupita che il parto è vissuto in modo brutale. Le donne sono viste come persone da curare, i medici le trattano da malate. Lei ha in mente qualcosa di diverso: “Questa terra vive già abbastanza violenza, togliamola almeno dal parto“. Vuole promuovere il parto naturale e inizia a raccontare le sue idee alle ostetriche palestinesi del St. Joseph. All’inizio trova resistenza, ma quando il reparto dell’ospedale è finalmente pronto, inaugurano il nuovo corso. All’inizio arrivano poche coppie, nasce un bambino ogni 2-3 giorni, e la partenza lenta le dà il tempo di seguire tutto in prima persona e rodare il metodo: “Nel tempo è diventato il nostro stile. Volevamo un luogo di servizio, non una fabbrica di bambini”.
I primi tempi a frequentare il St. Joseph sono i palestinesi di Gerusalemme e alcuni che arrivano dalla West-Bank. Il meccanismo delle assicurazioni sanitarie non aiuta, ancora meno i check point e i protocolli di sicurezza. Muoversi qua e là dal muro, o anche solo tra quartieri, non è una cosa semplice.
La nuova svolta, l’ennesima, arriva nel 2017. Suor Valentina promuove un workshop per il parto in acqua: ci sono tante resistenze culturali da vincere, sembra una rivoluzione, ma alla fine il St. Joseph è il primo e unico ospedale a proporlo e la notizia gira. Anche tra gli ebrei.
La prima coppia ebrea arrivata in maternità aveva scelto il St. Joseph solo perché costava meno degli ospedali israeliani. Lo staff dell’ospedale è interamente palestinese. Due ostetriche, una cristiana e una palestinese, non la vivono bene. “Loro ammazzano i nostri figli e noi dovremmo far nascere i loro?”. Suor Valentina teme le reazioni del personale. Aya, un’ostetrica palestinese che per anni è stata un’attivista, non comprende l’apertura della suora: “Io non li voglio vedere qua. Tutte le volte che nasce un bambino ebreo mi domando se sparerà a uno dei miei figli“. Valentina lavora di mediazione.
Spera che se un bambino nasce in pace potrà diventare una persona di pace. L’ospedale è per tutti. La porta non si può chiudere. La prima coppia ebrea è così entusiasta dell’accoglienza ricevuta che consiglia la struttura ad altre famiglie. La voce corre e in poco tempo il St. Joseph diventa un punto di riferimento e un luogo di incontro. Le “doula” ebree, le donne che di professione accompagnano le coppie verso il parto, promuovono sempre di più la struttura. Ecco che nell’ospedale le ostetriche palestinesi assistono nel parto coppie di ogni etnia, cultura e religione. Perfino coppie di coloni, incredibilmente. Il telefono di Suor Valentina è pieno di testimonianze di affetto e gratitudine verso lo staff, e la consapevolezza di fare qualcosa di importante si diffonde anche nel personale. Persone che vivono vite tanto diverse, colme di ostilità e rabbia, si incontrano nella stessa sala parto. Italiani, palestinesi o israeliani: veniamo al mondo tutti allo stesso modo.
E oggi? “Dopo ogni conflitto la situazione precipita, sembra di partire ogni volta da zero. Abbiamo personale che si rifiuta di accogliere gli ebrei che li stanno sfrattando. Cercano di mettere la professionalità davanti a tutto, ma per loro non è semplice”.
Il St. Joseph è nel cuore di Gerusalemme Est, a Sheik Jarrah, il quartiere arabo da cui i sionisti vogliono sfrattare i palestinesi, il cuore della protesta che ha portato al sorgere dell’ultimo conflitto.
Al piano terra dell’ospedale arrivano i feriti degli scontri della Spianata delle Moschee. Dopo il “Jerusalem Day”, la tensione è alle stelle. La città esplode, il conflitto si allarga. Al terzo piano in maternità ci sono coppie palestinesi ed ebree: le doula iniziano a chiedersi se il St. Joseph sia o meno un luogo sicuro. Le ostetriche palestinesi intanto leggono online i post sionisti delle doula. Il conflitto è civile ed etnico, e arriva anche in corsia. I punti di vista sembrano inconciliabili.
“Sono stati giorni disastrosi. A volte sembra non ci sia speranza, verrebbe solo da gridare. Però questa estremizzazione ha spinto tanti a capire e a dire che non è questa la realtà che vogliono. E ci sono anche cose che nessuno vede, come i messaggi che riceviamo da tanti ebrei che esprimono vicinanza allo staff dell’ospedale, mostrano comprensione, si scusano con il nostro personale per il trattamento di Israele”. Questo processo di umanità non cambia il corso della storia, ma il cuore delle persone sì. Una colona ebrea ha scritto a Suor Valentina che è convinta che la pace sia possibile dopo aver partorito al St. Joseph. Tante doula pensano lo stesso e inviano messaggi di solidarietà. Anche Aya, l’ostetrica-attivista, ha cambiato approccio: “cerco di dare il meglio di me. Spero che vedendoci lavorare insegnino ai loro figli a rispettarci”.
Dopo 11 giorni di conflitto, con oltre 210 morti palestinesi e 10 morti israeliani, il 20 maggio Hamas e Israele hanno siglato una tregua. Quello stesso giorno al Saint Joseph nascevano 13 nuove vite.