Il teschio di un elefante è stato negli ultimi creativi anni artistici del grande scultore inglese Henry Moore fonte di ispirazione e di senso, forma da cui altre forme sono state riprese, traslate, tradotte. Ed è il baricentro fisico e semantico de Il Disegno dello scultore, la mostra monografica inaugurata martedì 18 gennaio al Museo Novecento, in collaborazione con la Fondazione Henry Moore e la Fondazione MPS, per la cura del direttore Sergio Risaliti, Sebastiano Barassi e Head of Henry Moore Collections and Exhibitions. 

Ossa, pecore, rami d’albero e altri elementi naturali, questi sono i leitmotiv che alimentano le opere grafiche, pittoriche e plastiche esposte. Ma più ancora del valore intrinseco della mostra (giudizio dal quale mi astengo), è il valore estrinseco: la rinascita dell’arte e della vita culturale in città, a partire dall’essenziale, dallo scheletro si potrebbe dire. 

Ripartire cioè dai pochi elementi che restano (“Ossi di seppia” di montaliana citazione) – come visitare un museo in un venerdì di un pomeriggio piovoso d’inverno, tradizione che sembrava ormai dimenticata e sepolta, proprio come quel teschio d’elefante prima che divenisse fonte creativa per la mente di un genio.

Memoria di ciò che fu e forse ciò che potrà tornare a essere è il ricordo corredato da video e documenti d’epoca dell’ultima grande mostra di Moore a Firenze prima di questa, al Forte Belvedere e datata 1972. 

Henry Moore PECORE