Qualche tempo fa – non poco: si andava ancora a scuola – una mia studentessa aveva il compito di spiegare un argomento alla classe. Poco dopo aver iniziato si è interrotta, perché aveva dimenticato un passaggio che nelle mie lezioni è immancabile. Ci ha chiesto: come state?
Questo ricordo, già dolce di per sé, ha un che di struggente in questo momento in cui non so se li rivedrò di persona, i miei studenti. Nemmeno settembre appare un traguardo realistico per un precario. Chi può fare previsioni?
In ogni caso un educatore è un educatore e non si perde d’animo, perché quell’animo è contagioso, è trasparente. Mi sono presto attrezzata testando diverse piattaforme digitali, ben sapendo che indicazioni ufficiali dalla scuola non sarebbero arrivate prima di settimane.
Alcuni studenti sono intervenuti per darmi delle dritte, altri per chiedermi, a poche ore dal primo decreto, di continuare a fare in qualche modo lezione. Ampio è stato anche il confronto tra colleghi: si è creato un fronte spontaneo di volenterose cavie che si avventurassero in questo mondo e vi accompagnassero i colleghi meno digitalizzati. Un’attività febbrile che ha paradossalmente dovuto rallentare una volta che la scuola si è organizzata con nuove modalità didattiche e orarie: stavamo lavorando troppo.
A posteriori, sono in grado di capire perché questo sia successo. Vedere comparire quei rettangolini con le loro facce sullo schermo, per quanto assonnate e struccate: un’emozione da scolaretti.
La nostra frequentazione personale, umana, è stata tagliata da un giorno all’altro, in maniera traumatica, evidenziando quanto il succo di questo lavoro sia nell’essere in relazione. Mantenere viva questa rete è ciò di cui c’è bisogno, da entrambi i lati della cattedra.
Dalla finestra della nostra aula noi abbiamo la fortuna di vedere Piazza Santa Croce. E questa piazza me l’ha fabbricata mia sorella in cartone, incorniciata da una finestra; un art attack pensato per farli sorridere, ma anche per farci sentire tutti un po’ più a casa.