Una volta ho toppato un colloquio di lavoro in quanto incolonnata dietro al camion di Alia. Era un buon impiego e mi è dispiaciuto perderlo, ma tutto sommato è andata bene così. Occorre forse specificare che non si trattava di un colloquio con Alia; lì la faccenda avrebbe assunto tratti che non sarebbe eccessivo definire paranormali.

Rimane però il fatto che gli automezzi del pulito hanno un potere caratteristico, paragonabile a quello dell’opposizione di Saturno. Le coppie si lasciano dietro ai camion di Alia: prima si stanno recando a fare la cosa che preferiscono, che è recensire su internet i ristoranti greci; l’attimo dopo è subito sera.

Ammirano le scorie delle loro esistenze sospese sul ribaltabile, e senza una ragione apparente tornano alla volta in cui uno non ha nutrito a sufficienza il felino dell’altro, o a quando a quella cena – sempre al ristorante greco – lo tzatziki non è stato ripartito in modo equo, e nell’intervallo tendente all’infinito in cui il multimateriale completa il volo verso una nuova avventura tutto assume significati definitivi, cosicché all’arrivo è già tempo di separarsi.

Le famiglie si smembrano, le amicizie si sciolgono, e poi c’è la cosa che Alia un tempo non si chiamava neppure Alia, ma Asnu, poi Quadrifoglio e poi adesso un nome ancora nuovo, come a intorbidire le acque, come le discoteche di Milano. C’è chi sospetta che i camion di Alia siano la copertura di un complotto su scala mondiale, e che contengano un marchingegno segreto per rubare a chi è in coda la vita, o l’ātman dei filosofi hindu, per poi rivenderla ai magnati degli stati potenti tipo Cina, Russia e Stati Uniti.

Credo però che la verità sia un’altra, e cioè che dagli albori dei giorni siamo noi stessi a consegnare ad Alia la nostra essenza: le buste dei Polaretti, i tetrapak dei succhi di pera, il Nokia vecchio che funziona ancora. Così ci alleggeriamo e invecchiamo al tempo stesso, e dietro a quei veicoli sonnolenti ci prende il sentore di ciò che abbiamo perduto.