“Le cose non hanno padrone, tutto ciò che abbiamo, sarà di altri”, così si presenta Alberto Bruschi, araldista, storico, editore e collezionista, parlando a proposito degli oggetti antichi; mentre ci apre le porte del suo caratteristico studio/museo, all’interno della medievale Torre dei Lanfredini, di sua proprietà.

Conservare i manufatti storici per le nuove generazioni, secondo lui, significa essere rispettosi, studiosi e persino un po’ filantropi. E così ha fatto Bruschi che “con una semplicità infinita”, come tiene a precisare, ha prestato molti oggetti da lui collezionati a varie mostre in tutto il mondo. Alcuni li ha perfino donati ai musei, al solo scopo di farli tornare nel loro luogo di nascita, affinché tutti potessero goderne.

Personaggio talmente eclettico da trasformarsi nel tempo da semplice collezionista e ricercatore in una sorta di Indiana Jones locale, andando a scovare oggetti considerati perduti.

Non siamo noi che andiamo alla ricerca delle cose; sono le cose che vanno alla ricerca di coloro che le possono meglio comprendere e proteggere”, continua l’araldista. E così è stato, ad esempio, per le dita e il premolare di Galileo Galilei. Chissà che fine avrebbero fatto se Bruschi non avesse saputo riconoscere per tempo gli stemmi. Questa la storia: Bruschi è un araldista dall’età di quindici anni, quando ebbe appunto un colpo di fulmine per questa “vecchia signora dal linguaggio barbarico”.

araldica

foto. Giulio Garosi

L’Araldica, per lui, non ammette errori e offre grande supporto agli studi storici. È stato il caso, anni fa, a far ricevere a Bruschi un catalogo che lo invitava a partecipare ad un’asta. Nello sfogliarlo, il suo sguardo venne subito rapito da un sigillo della famiglia Capponi posto su una misteriosa reliquia alta quasi un metro. Grazie al contributo di sua figlia Candida, Bruschi sciolse il mistero: fu lei infatti a fornirgli lo scritto di un notaio che descriveva il giorno in cui fu traslato lo scheletro di Galileo Galilei, per esser trasferito nel suo sepolcro monumentale, in Santa Croce nel 1737.

L’evento suscitò grande interesse e, con il benestare del Granduca Gastone de’ Medici, si radunò molta dell’intellighenziafiorentina di allora, tra cui molti massoni.

Cocchi (primo direttore degli Uffizi) prese una vertebra e la portò all’università di Padova, luogo in cui lo scienziato aveva avuto una cattedra. Angelo Maria Bandini un dito medio (oggi al Museo Galilei), e l’abate Capponi un pollice (il dito con cui scriveva), l’indice (quello con cui indicava le stelle) e un premolare. Capponi pose questi tre resti all’interno di un reliquiario che, passato negli anni di mano in mano, andò perso. Le reliquie infatti furono scambiate per quelle di qualche santo, e riposte in una cappella privata in campagna. L’ultimo proprietario le mise all’asta non sapendo bene di chi fossero.

Le ha identificate Bruschi, una volta ricostruita la loro storia. Se le è aggiudicate, e ha fatto sì che tornassero finalmente a casa: oggi, infatti, sono state prestate alla collezione del Museo Galilei.