Che il cammino sia un modo per mettere in pausa la propria vita per ben più alte riflessioni è una considerazione ormai nota, soprattutto nella letteratura. Ogni volta, quindi, che ci troviamo davanti un libro, romanzo o saggio che sia che tratta questo argomento, è normale avere un momento di titubanza. “L’iguana era a pezzi” non è un libro sul viaggio. Per quanto sullo sfondo sia effettivamente presente il percorso della via Francigena (che da tempo, ormai, è al centro di un progetto di riqualificazione), questo è un cammino dell’immobilità.
La natura, a parte qualche sfumatura regionale, ci appare come uno scenario impassibile, immobile, che attraversa uno dei tre protagonisti, ma che non lo modifica, non lo altera. “L’iguana era a pezzi” non è un romanzo di formazione, non è un’ascesi, una maturazione, un cambiamento, è un percorso della frazione di un tempo che si cristallizza.
Mi sono sentito libero di definire il romanzo di Giulio Pedani un “accenno di opera mondo”, dove per “opera mondo” si intende quello scritto, quel pezzo d’arte che riesce a dare uno spaccato preciso di una certa età in un momento storico specifico. Chiunque può trovare al suo interno un pezzo di sé.
Io, in quanto soggetto delimitato, mi sono districato tra una lotta a suon di titoli tra i fratelli Cohen e David Lynch, mi sono immerso in un’allucinazione senese, ho ripercorso la mia cultura musicale con l’onnipresente Iggy Pop (da cui deriva il titolo), il duca bianco David Bowie e il purtroppo assente Lou Reed.
Giulio Pedani ha scritto un libro che parla di sé ma che in qualche modo parla di tutti, senza mai cadere nell’autoreferenziale.