di Massimo Mattei
Tra meno di una settimana si comincia.
Come ogni anno dal ’51, che si stava ricostruendo un paese ed anche cantare e ballare ci faceva riscoprire la libertà. Tra meno di una settimana si dirà che no, non si guarda. Perché fa tipo, perché abbiamo letto qualche libro ed un po’ ci fa vergogna, perché quel ragazzo che abbiamo conosciuto o la collega di lavoro che da tanto puntavamo, ci proporranno qualcosa di diverso e di migliore e le canzonette potranno aspettare.
Perché vai a spiegare che guardi Sanremo a quella che fa filosofia teoretica oppure allo studente pugliese che, al limite, si emoziona per la taranta e per la pizzica e che ti parla per ore della propria terra.
Ma Sanremo proprio no, Sanremo non si guarda.
Sanremo è nazionalpopolare, come scriveva Gramsci, per altre cose, è vero; ma la definizione sembrava pensata per la kermesse della Riviera che è passata indenne da ogni nostra stagione.
Ha attraversato i moralismi democristiani, i primi riformismi del centrosinistra, la stagione del piombo.
Gli edonismi socialisti, l’orgia berlusconiana e la mestizia ulivista.
Ed adesso è pronta a farci cercare la canzone da cantare fino a giugno negli anni dei sovranisti.
Sanremo siamo noi, in fondo.
Con le nostre classifiche aggiornate, con il premio della critica; con le nostre eccellenze e le nostre miserie, con la canzone che ricorderemo tra vent’anni e quella che scorderemo domattina.
Perché è vero che tante sere ci siamo annoiati, ma c’è stata una sera che abbiamo ascoltato “Volare” con Modugno che allargava le braccia, un’altra che Dalla si chiamava “Gesù bambino” ed una che con Vasco ci siamo ritrovati all’Harrys bar: come le star.
Ed allora la tipa che fa filosofia teoretica può aspettare, ed anche il ragazzo pugliese che ti parla di taranta può uscire con te un’altra volta.
C’è Sanremo.
Non si scherza con i santi.