Probabilmente se si fosse chiamata “Fontana del Cinghiale” non avrebbe avuto lo stesso giro. A Firenze, quando il marketing doveva ancora connaturarsi nel suo nome proprio, i mercanti della loggia del Mercato Nuovo conoscevano già le solide regole del copywriting.
Questa gente sapeva che il cinghiale, essendo una bestia selvaggia, non poteva certo rapportarsi appieno con la sfera dei sentimenti umani, ma il porcellino, uh, il porcellino, con quel diminutivo tutto rosa era già il progenitore dei gattini online e avrebbe funzionato benissimo. E infatti funzionò.
Quello che più mi stupisce di queste storie sui fortunati quadrupedi italiani è che nessuno si chiede mai il perché dovrebbero portar fortuna. La fortuna, al contrario della sfortuna, si dà sempre per scontata. Calpestare le palle al toro di Milano è normale: “devi fare tre giri con il tallone appoggiato sui suoi coglioni” ti dicono, e tu lo fai, dopo aver saputo che la fortuna sarà dalla tua parte non hai bisogno di ulteriori spiegazioni.
La stessa cosa vale per il porcellino: “devi accarezzargli il naso, mettergli una moneta in bocca ed esprimere il desiderio”. Come fai a non cascarci? C’è tutto: la preparazione del rito, lo scambio e la ricompensa. Perché non dovrebbe funzionare? E anche se non dovesse perché rischiare di perdere un’occasione?
Belli, questi desideri che abbandoniamo per le città, fra bovini e suini, i nostri soldi in cambio di fortuna, il dare per il ricevere, il desiderio espresso e poi conservato, non dirlo mai o non si avvererà, e il porcellino che ha già mentito perché è un cinghiale, ti lascia andar via con l’illusione che forse, forse chissà.