Imparare a cucinare è un’arte che si apprende da piccoli, che parte dalle polpette di fango per arrivare alla pasta al burro o poco più in là. In questo tragitto tortuoso di scottature e tagli, sono varie le esperienze gastronomiche che formano il gusto (il primo gorgonzola annusato in frigo) e l’immaginario culinario (la prima gallina sgozzata, anyone?).
Tra queste immagini che generano l’humus gastrofigo su cui si innesteranno corsi di rotazione polsi per bicchieri ballon e degustazioni verticali, potresti esserti imbattuto nella minestrina al Formaggino MIO servita in un asilo di suore di provincia, dove vigeva il divieto di immergere il cucchiaio nel piatto prima di aver declamato una sfilza di preghiere ripetute per suoni e non per significati. La fame, sommata ai quattro anni di età o meno, ti avrà fatto volare altissimo con visioni come quella del “pane nostro che sei nei cieli” (con le alucce) o quella della “frutta del ventre/seno tuo”e via discorrendo.
Alle preghiere che generavano queste scene innocenti e blasfeme, si aggiungeva sempre la raccomandazione di dire alla mamma, una volta tornati a casa dall’asilo, di “mettere un pezzetto di Gesù nella minestra”.
E giù pensieri di pezzi di dita in brodo.
Questa dimensione cannibale, invece di indurti al digiuno, ti avrebbe insegnato che la vita non sarebbe stata nient’altro che una zuppa di pezzi di persone, che si sarebbero inserite in tempi diversi, che avresti fagocitato e metabolizzato.
E dove spesso sarebbero finiti, senza che nemmeno tene accorgessi, ingredienti stonati, che avresti dosato per dare loro il giusto equilibrio e che in un brodo di lacrime, sudore e saliva avrebbero generato la meravigliosa zuppa che servi ogni mattina al mondo quando ti svegli.