C’è stato un tempo nella mia vita, un tempo felice, in cui due volte a settimana, col caldo e col freddo, mi alzavo la mattina alle 6:30 e in treno andavo al mercato di Sant’Ambrogio.
Ci andavo per aiutare un amico che là montava il suo banco di “antiquariato”.
Aggeggi di tutti i tipi: soprammobili, profumi mignon, dischi, borse, orologi, libri e perfino enormi rane in terracotta da giardino. Era bello stare li, anche se a volte ti si ghiacciavano le mani e i piedi. Capitavano persone di tutti i tipi.
La vecchina col carrellino a dadi scozzesi per la spesa, la coppia di signori colti e benestanti, una trans bionda e matura, il sedicente mago dai capelli bianchi e gli occhi di ghiaccio, e Mirko, un ex tossico a cui la droga aveva corroso il fisico e la mente.
Magari tanti non compravano neppure, ma venivano per parlare. Parlare di tutto, di storia, di arte, di donne, di politica o di viaggi; ma soprattutto dei loro problemi.
Uscivo dal mio guscio di timidezza e mi aprivo alle vite di questi ultimi fiorentini.
Tanti personaggi sulla scena del mercato.
Già, il mercato… Molti non sanno che fu inaugurato nel 1873, un anno prima di San Lorenzo. Lo progettò, in vetro, ghisa e cemento, Giuseppe Mengoni, lo stesso architetto del Mercato Centrale (1874) e della Galleria Vittorio Emanuele a Milano (1877).
Intorno a noi soprattutto ortolani e venditori di abbigliamento. Alcuni ormai facevano parte del paesaggio. La sorella e il fratello enormi con le verdure del loro orto, il marocchino che vendeva vestiti cinesi e il napoletano dai Ray-Ban nerissimi con la passione per le donne cinesi. Da quattro anni non vado più la mattina presto in Sant’Ambrogio. Il mio amico se n’è andato, lasciando un posto libero tra i banchi del mercato e un grande vuoto in tutte le persone che lo hanno conosciuto.