Dopo il successo di “La La Land”, Damien Chazelle torna alla regia con un film che si discosta molto dai generi affrontati nei suoi precedenti lavori. L’evento biografico riportato in First Man è ben noto a tutti: il 20 luglio 1969, l’equipaggio dell’Apollo 11 riuscì ad effettuare il fatidico allunaggio e Neil Armstrong fu il primo uomo a calpestare il suolo lunare, pronunciando l’indimenticabile frase: “un piccolo passo per l’uomo, un grande passo per l’umanità”.
La conquista della Luna però non è l’elemento cruciale e protagonista della pellicola. Il regista sembra voler mettere da parte la fama e la gloria di un tale evento, e mostrare invece la parte psicologica ed emotiva di colui che l’ha vissuto.
First Man infatti concede allo spettatore una prospettiva totalmente diversa dal quale guardare questo fatto storico. Per quasi l’intera pellicola, vediamo ciò che accade attraverso gli occhi di Neil. Grazie ad un superbo utilizzo della soggettiva, lo spettatore può immedesimarsi totalmente in Neil Armstrong e riuscire ad immaginare le sensazioni da lui provate.
Le scene confusionarie e claustrofobiche all’interno delle navicelle spaziali rappresentano infatti un elemento potente e fondamentale per la resa emozionale.
Ciò che Chazelle vuole trasmettere nel film però è la normalità di Neil Armstrong, in contrasto con l’epicità e l’importanza delle missioni spaziali. Ryan Gosling riesce a far trapelare l’insicurezza e le debolezze di un uomo schivo e chiuso che nasconde una profonda ferita che nemmeno lui riesce a guarire.
Ciò che rende ancora più suggestiva ed emozionante First Man è la componente musicale: il regista non ha paura di osare ed utilizzare il profondo ed assordante silenzio dell’immensità nelle scene ambientate nello spazio. Il netto contrasto tra i suoni della navicella e l’assenza di rumore nell’universo, trasmette un improvviso senso di smarrimento e meraviglia. Un film toccante e vero sulla natura umana e il desiderio di oltrepassare i limiti.