Si è conclusa ieri la nona edizione del Festival tra i sorrisi stanchi dello staff, l’atmosfera di un qualcosa che è apparso come un treno ed è subito scivolato via, gli ultimi riff di una canzone ascoltata troppo poco, le strette di mano di chi ha lavorato tanto e gli ultimi frame delle proiezioni al pubblico.

In maniera imperdonabile non vi ho accennato prima della giuria del Festival, una giuria tutta al femminile: Valentina Bellé, Francesca Archibugi e Concita de Gregorio, che abbiamo avuto il piacere di intervistare.

D.G.: “La qualità dei film che abbiamo visto è stata altissima e oltretutto sempre! Erano film molto diversi tra loro e non è facile mettere sullo stesso piano l’opera di un maestro della cinematografia mondiale e quella di un esordiente”.

Il premio per l’opera prima è andato a “Django”, il biopic su uno dei musicisti jazz più influenti della storia, Django Reinhardt, interpretato da Reda Kateb.

C.D.G: “È stato sorprendente, ci ha stupite tutte. È un film che mi fa uscire dalla sala diversa da come ci sono entrata e mi fa venire voglia di chiamare immediatamente cinque persone a cui dire ‘Devi andarlo a vedere’ e Django è così”.

Anche noi lo abbiamo visto ieri, ce lo aspettavamo un po’ diverso da come lo avevamo immaginato, ovvero un’opera sull’artista e sulla sua musica. Invece il jazz si rivela solo un pretesto per parlare tuttavia di un tema di cui si sa poco: la persecuzione dei nazisti nei confronti dei gitani francesi, di cui Django stesso faceva parte.

Magistrale l’interpretazione di Reda Kateb nei panni del protagonista che non perde un colpo e che incarna alla perfezione questa versione più umana (e meno artistica?) di Django, immerso in triangoli amorosi e grandi conflitti dai quali viene dominato per tutta la durata del film, un personaggio dal carattere forte e travolgente che forse viene un po’ schiacciato e soffocato dal contesto storico in cui è immerso. Il Premio della giuria è andato invece a L’amant du jour di Philippe Garrel, mentre è un’altra opera prima a vincere il Foglio d’oro, ossia Petit Paysan di Hubert Charuel. È un film che sorprende piacevolmente. Protagonista è un trentacinquenne allevatore di mucche, ha come unico obiettivo il benessere delle sue bestie. Scopo encomiabile se non fosse che dovrà scontrarsi con un’epidemia bovina e con l’iter sanitario delle circostanze, rischiando di perdere tutto ciò che per lui ha un valore.  Da dramma a ottimo thriller rurale con una scrittura fresca che riesce anche a regalare qualche piccolo momento comico per rompere la tensione, “Petit Paysan” è una scommessa: cercare di catturare il pubblico nella sua totalità con un soggetto distante dalla realtà nella quale siamo immersi quotidianamente. Scommessa vinta. Consigliamo vivamente la visione di questo film che verrà distribuito a breve nelle sale italiane.

Francesca Archibugi: E’ un’esperienza del tutto personale, il regista è davvero nato e cresciuto in una fattoria e ha vissuto come un giovane allevatore di mandrie, eppure da questa materia personale è riuscito a fare una grande opera drammaturgica con una potenza esistenziale quasi da romanzo di Melville o dei grandi western”

Per finire hanno vinto come Premio dei Giovani La Redoutable, mentre il premio del pubblico è andato a Aurore.

Qui si conclude la mia missione come inviato al Festival da cui ne esco ricco e soddisfatto, perché il cinema è e resterà una fontana da cui bere emozioni, conoscenza e sapere, oltre alle grandi immagini e alle bellissime interpretazioni, oltre ad aver riassaporato la bellissima atmosfera della cultura francese. La giuria ha deciso di premiare soprattutto opere prime e qui non possiamo non notare l’interscambio frequente di registi giovani ed esordienti che hanno l’occasione in Francia e in tanti altri paesi di poter girare un lungometraggio, perché sono paesi dove si investe, si scommette su ciò che non si conosce, sul futuro, sui giovani. Concludo quindi la mia missione con una domanda: quand’è che l’Italia e il cinema italiano faranno lo stesso?

 

 

di Mehdi Ben Temime