di Alba Parrini
Parlare della Toscana di Mario Monicelli significa intraprendere un viaggio che inizia subito con una supercazzola come se fosse Antani. Il regista che da sempre ha dichiarato di essere toscano di nascita, più precisamente viareggino, ha scelto Firenze come luogo simbolo della comicità toscana solo in seguito. Verso la fine della sua vita, il critico Stefano Della Casa scoprì che il regista era in realtà nato a Roma, nel quartiere Prati. Si dice che Monicelli alimentasse questo equivoco come omaggio alla città di Viareggio perché, nelle parole del sindaco della città versiliese Lunardini «amava talmente tanto Viareggio che considerava questa città il luogo in cui era nata la sua anima, quindi lui stesso. E perciò elesse Viareggio a sua città natale, come riportano tutte le enciclopedie e le biografie sulla base della testimonianza diretta raccontata dall’interessato.»
Dunque Monicelli era toscano soltanto di elezione. Ciò non toglie il fatto di essere riuscito ad assorbire lo spirito fiorentino, inteso sia come animo che come attitudine ironica e dolce amara alla vita, fino al punto da diventarne uno degli emblemi.
È risaputo che Monicelli adorasse profondamente la Toscana, eppure si suppone che il suo rapporto con il capoluogo fosse in bilico tra amore odio, almeno tanto quanto lo era il suo sentimento verso i personaggi della pellicola più cara ai fiorentini, Amici miei.
Dire Amici miei equivale a dire Firenze. Ecco perché il Bar Necchi in via dei Renai 17 è stato fino a due mesi fa molto apprezzato e frequentato, nonostante la diversa location. Negli stessi locali aveva infatti aperto il Bar Negroni, storico ritrovo in san Niccolò, fino alla chiusura lo scorso ottobre. Certo è che la Firenze che abita e rappresenta Monicelli è molto diversa da quella del 2015. Basti pensare che la clinica del Sassaroli, idealmente situata a Pescia, altro non è che la Villa del Salviatino, oggi relais di lusso che niente ha da spartire con le zingarate dei quattro vecchi del gruppo. E come dimenticarsi della scena degli schiaffi dal treno in Santa Maria Novella? È facile capire quanto tutto sia cambiato se pensiamo che adesso per avvicinarsi al binario occorre prima mostrare il biglietto. Magari oggigiorno le zingarate non sarebbero più possibili.
Monicelli e Amici miei sono tutt’uno con il quartiere Santo Spirito. Se vi è mai capitato di parlare con un ex sessantottino, forse saprete a quale tipo di immaginario popolare facesse riferimento il regista. Erano i primi anni Settanta, gli anni del fermento, nessuno era stabile, non esisteva ancora la consapevolezza del benessere economico. In Oltrarno si respirava ancora l’aria del paese, più che del quartiere, con le macchine che giravano senza impedimenti e la gente che viveva spesso la strada, oltre che per strada. Non è un caso che la scena finale del film, quella del funerale del Perozzi, sia ambientata proprio in Piazza Santo Spirito.
A suggellare questo legame profondo tra la città e uno dei registi che più ha saputo capirla, nel 2010 Santo Spirito è tornato a essere il soggetto di un cortometraggio che proponeva un finale diverso per il film. L’ultima zingarata, è stato girato quindi con l’intento di inscenare «un funeralone da fargli pigliare un colpo a tutti e due a quelli… E migliaia di persone, e tutti a piangere… E corone, e telegrammi, bande, bandiere, puttane e militari…» per dirla con le parole che Monicelli fa pronunciare a Moschin. Alle riprese hanno partecipato, oltre al maestro stesso, anche la banda musicale di Fucecchio, un gruppo di majorette e tantissime comparse accorse da tutta la città.
l regista amò profondamente anche la campagna toscana, che non identificò mai con un locus definito. È il caso dell’ambientazione di Speriamo che sia femmina (che fu girato in Maremma). L’amore di Monicelli per i paesaggi agricoli toscani emerge anche in una delle sue rarissime partecipazioni attoriali: pochi infatti sanno che ne Il Ciclone di Peraccioni, la voce del nonno che parla dalla finestra del casolare è proprio del Maestro. Monicelli si prestò a recitare anche in una produzione più commerciale, che però aveva lo scopo manifesto di celebrare i paesaggi agresti toscani. È il caso di Under the Tuscan sun, del 2003, ambientato nella campagna tra Arezzo e Firenze.