Avvertenza. Per fruire nel migliore dei modi del testo che segue, la lettura dovrebbe essere accompagnata dallo struggente evergreen “All by myself” di Eric Carmen, che volendo può essere ascoltato anche nella più moderna versione di Céline Dion. Sempre se ne avete il coraggio.

Alla fine al cinema ci sono andata da sola, che tanto chi ci sarebbe dovuto venire a vedere un film sui cooperanti? Diciamoci la verità, se non fosse stata l’unica cosa guardabile in uscita questa settimana non ci sarei andata nemmeno io. Operatori umanitari in Bosnia che tirano su cadaveri dai pozzi: messa così può veramente interessare a qualcuno? Forse in realtà sì, e il fatto è semplicemente che mi sono assuefatta al cinema yankee di puro intrattenimento, per cui l’equazione si riduce a: gente che si insegue e cose che scoppiano = ok, ho già comprato il biglietto / molti dialoghi e basso tasso d’azione = magari ci penso un attimo su.

Ma poi alla fine il film era anche bello, e mentre me ne stavo acquattata in penultima fila sulla mia poltroncina blu pensavo che un tempo avevo anche un fidanzato che lo faceva di mestiere, il cooperante. Non era mai stato in Bosnia perché la guerra lì era bella che finita da un pezzo ma facevamo lunghe e complicatissime telefonate su Skype dal Malawi, dal Camerun e dal Senegal, urlando per ore i nomi l’uno dell’altro nel disperato tentativo di superare le interferenze sulla linea e il wi-fi che andava e veniva. Al ritorno lui aveva sempre storielle avventurose da raccontare, ed io pensavo che doveva essere bello vivere così, facendo del turismo nei mondi degli altri. Turismo consapevole, s’intende.

Comunque dicevo, il film valeva tutti i sei euro con sconto studente che il cassiere mi ha generosamente concesso, ma la cosa davvero stupefacente, al di là delle mucche imbottite di mine, dei bambini cresciuti troppo in fretta e della consueta lucida follia balcanica, è Tim Robbins. Perché A perfect day è praticamente l’unico film in cui il nostro molto premiato amico non viene pestato fino allo svenimento, ammazzato o non è direttamente già morto all’inizio della storia. Il che non è affatto male, una volta tanto. Sarà che tutto intorno c’è già abbastanza disastro, senza che ci si metta pure lui.

E poi c’è una scena, quella in cui Benicio del Toro chiama la moglie con uno di quei telefoni giganteschi, in sostanza una valigia con una cornetta attaccata. E non c’è la comunicazione che salta, non serve alzare la voce e si può parlare senza problemi del colore della cameretta da acquistare per i bambini. Chissà se Benicio del Toro è mai stato in Malawi, penso. Chissà se il Malawi è ancora al suo posto mentre io sto seduta qui, in un cinema troppo grande, troppo vuoto, con il sapore di una caramella Rossana che mi ristagna in bocca.

Questa settimana “A perfect day” è al cinema Portico. Ma senza “All by myself” in sottofondo.

 

di Francesca Corpaci