Il primo strumento di calcolo che ci viene mostrato al Museo del Calcolatore è la nostra mano, solo dopo passiamo alle appendici artificiali che hanno aiutato l’uomo a contare, dagli abachi alle calcolatrici meccaniche, fino all’elettronica tra computer e console videoludiche, testimoniandone la loro evoluzione. L’esposizione non ospita che una minima parte della collezione accuratamente selezionata e a rotazione continua, creata anche grazie alle numerose donazioni dei soci. Il professor Riccardo Aliani, fondatore del progetto, e Massimo Belardi, ex studente della scuola, sono due dei volontari che si impegnano per la divulgazione di quanto conservato in questo spazio.
La nascita del museo testimonia l’importanza di questi strumenti sia a livello pratico che storico; durante la visita, Aliani ha sottolineato che è necessario rivedere la concezione di spazio espositivo poiché anche gli oggetti che provengono dagli ambiti tecnologici e informatici devono avere un percorso specializzato. Per questo motivo, il Museo è dotato di un laboratorio dove Aliani e i volontari riparano le macchine che gli sono donate per poi esporle, mostrando una progettualità che va oltre la semplice catalogazione, sforzandosi di andare a conoscere a fondo ogni singolo pezzo. Le macchine esposte hanno una stratificazione di identità: sono apprezzate in quanto efficienti strumenti di calcolo, collegate da rapporti di parentela, dato che le precedenti hanno influenzato l’evoluzione delle successive; sono oggetti di design che testimoniano l’unione di efficienza ed estetica in funzione dell’acquisto in un determinato periodo storico.
Massimo Belardi ci spiega, come esempio, che non è un caso che dal Secondo Dopoguerra in poi il nero fosse un colore bandito per realizzare le scocche delle macchine e che la palette si fosse spostata su toni ben più neutri, anche per realizzarne l’apparato pubblicitario. Il museo, infatti, conta una raccolta digitale e cartacea di poster pubblicitari donati da appassionati, VintAds, un archivio che mostra il modo in cui diverse generazioni si sono approcciate a strumenti di calcolo meccanici ed elettronici e come, entrando sempre più nella vita del privato, anche la pubblicità si è modificata per la vendita in massa di questi oggetti. Quando si parla di archeologia dei media, si ha l’idea di un progresso senza fine, simile alla concezione positivista della scienza e dell’evoluzione. In realtà, il processo è molto più complesso.
Aliani e Belardi dimostrano che non sempre l’evoluzione è una serie di passi in avanti: alla fine della visita, mettono in funzione un organetto a disco perforato della fine dell’Ottocento; l’organetto riproduce la musica attraverso una tecnologia digitale, soppiantata poi dai dischi in vinile, analogici, fino agli inizi degli anni Novanta del secolo scorso, quando nascono i primi CD. Si fa un passo indietro per decine di anni, solo per approdare a una maggiore evoluzione tecnologica e ripartire con strumenti più adeguati.
Crediti fotografici: Vittoria Brachi