Scarpe e pantaloni macchiati di fanghiglia fresca e liscia, una temperatura inspiegabile e gradevole, lo strano presentimento di essere circondati da miliardi di cinghiali crudi, la vista sfocata per l’assenza di occhiali, un ciclista che mi guarda incuriosito mentre mi sfila accanto arroccato sullo chassis in fibra di carbonio del suo mezzo di locomozione.
Siamo in presenza di un poggetto da binocolo e sappiamo dalle poche recensioni di Google che varcare quella proprietà potrebbe significare apporre la parola fine alle nostre vite. Abbiamo raggiunto Camugliano per senso di imitazione, per vedere se quella chiesetta assomiglia davvero alla Cappella della Madonna di Vitaleta della Val d’Orcia. E potrebbe anche essere, a dire il vero: ma da quaggiù, senza l’ausilio del progresso, senza il coraggio di sfidare la sorte, non vi è certezza. Ci muoviamo lungo l’asfalto senza mai superare la staccionata, l’invalicabile muraglia del privato. Il filo spinato ci minaccia in silenzio e ci divide dal prato e dalla Chiesa di San Pierino: lei se ne sta nel suo piccolo, riservata come un tavolo al Twiga nella settimana di Ferragosto, nel canto dei quattro cipressi e delle loro ombre corte. Potrei dire che la facciata è scrostata, sudicia di pedate, nera, ma non ho motivo di essere sicuro se non del condizionale.
Ma qui si sta bene: io e lei, una topolona grigia, il ciclista canarino, la brezza gentile, una lunga lista di silenzi interrotti solo dallo stomaco che ruggisce.
Ci lasciamo alle spalle questa zolla di terra e ci allontaniamo in cerca di cibo. I cinghiali non sono un’opzione. Meglio un pasto umile, una schiacciatina frugale, qualcosa che ci faccia stare bene senza complicazioni: oggi, a quest’ora, è già tutto chiuso.
Crediti fotografici: Irene Tempestini