“Io mi sento Stato”. Sono le 9 di mattina, un cielo caliginoso si schianta nel cortile di Palazzo Strozzi, quando Sandra Gesualdi arriva di fretta, con un sorriso spalancato, tiene in mano una cartellina zeppa di fotocopie, interviste, articoli sottolineati. Ad un certo punto, mentre beviamo il caffè e racconta la sua storia, pronuncia queste parole. Bum.
Giornalista, figlia di Michele Gesualdi, uno dei primi sei allievi di Don Lorenzo Milani nella scuola di Barbiana, dirigente Cisl e presidente della Provincia di Firenze prima di Matteo Renzi, morto il 18 gennaio 2018 dopo una coriacea battaglia contro una malattia fatale, la SLA. Sandra si stupisce ancora di come la sofferenza di un singolo uomo seppe diventare volontà condivisa: tramite una lettera scritta all’estremo delle forze, il passaggio a Radio Radicale, un’intervista con Fabio Fazio, l’appoggio e l’aiuto di medici, pensatori, associazioni, cittadini, le parole di Michele Gesualdi, schiuse fra pause secche, germogliarono da Firenze al paese tutto, rappresentando la volata finale per la Legge 219 del 22 dicembre 2017, quella che regola le cosiddette DAT (disposizioni anticipate di trattamento).
“Mio padre, da cattolico fervente, non avrebbe mai parlato di eutanasia”, afferma convinta Sandra, “lui intendeva soffermarsi sulla libertà di scegliere, sul diritto che un cittadino deve esigere affinché lo Stato non ci lasci sofferenti”. Serviamo sani, insomma: ma è da fragili, da caduchi, che dobbiamo essere protetti. Così come è giusto far sì che il testo della 219 conosca una diffusione più ampia, che si dia forma ad un registro nazionale dei dati, che la messa in rete digitale avvenga quanto prima, che il rapporto medico-paziente sia basato sempre di più su una pianificazione condivisa delle cure.
Se la decisione della Consulta sul caso di Marco Cappato, qualche settimana fa, ha fatto esplodere i numerosi “Finalmente”, “Da oggi tutti più liberi” (così come la crescente indignazione dell’associazione medici anestesisti cattolici, che raccoglie più di 4000 firme), gli scalini da tassellare sono ancora molti. Crescono lentamente grazie a uomini come Luca Coscioni, Piergiorgio Welby, Beppino Englaro. Uomini volitivi, uomini di pensiero, persino uomini di chiesa, proprio come Michele Gesualdi, che aprì uno squarcio nel “dogma”, chiedendo rispetto verso un evento estremo e ineluttabile: la propria morte.
E oggi, sotto gli encomi di ammirazione, il cordoglio tardivo, le impermanenti parole-propaganda, che cosa resta? Rimane la tenacia della società silenziosa che vive ogni giorno le malattie incurabili e terminali, rimangono le associazioni dei parenti, resistono sul campo i ricercatori scientifici e gli attivisti, stanno in prima linea gli uomini e le donne come Sandra Gesualdi, quando dice quella frase: “Io mi sento Stato: non solo per le tasse che pago, i servizi che offro, ma per il senso collettivo di cui scelgo di vestirmi ogni mattina”.
Senza ecumenismo, ma senza neanche la volontà di trasformare questa testimonianza educatissima in un diverbio su “favorevoli e contrari”, chi scrive ci tiene comunque a dire una cosa: che conforto fare da scudo allo Stato, se di queste mani e idee qui… è fatto, lo Stato!