Intervista ad Alessio Bertini, responsabile delle attività educative, dell’accessibilità e dei progetti speciali presso la fondazione Pistoia Musei.
In un tempo in cui l’accesso alla cultura è talvolta filtrato da barriere (fisiche, cognitive o simboliche) c’è chi lavora per rendere l’arte un’esperienza condivisa. Alessio Bertini è una di queste figure.
Attualmente sei responsabile delle attività educative accessibilità e progetti speciali per la fondazione Pistoia Musei con un trascorso nel coordinamento programmazione educativa per giovani e scuole presso la fondazione Palazzo Strozzi. Che percorso hai avuto e quale è la tua storia?
«Sin dall’università ho frequentato l’arte contemporanea con progetti e piccole collaborazioni, ma in contesti di valore. Ho iniziato a lavorare al CCC Strozzina, dove la direzione diede libertà e opportunità nonostante fossimo studenti universitari. Mi sono da subito sentito a mio agio nell’affrontare contenuti complessi con un linguaggio accessibile. Quello che so l’ho imparato sul campo: venti anni fa non esistevano percorsi formativi sull’educazione o sulle pratiche museali, e ora mi trovo a insegnare in corsi che ai miei tempi non ho frequentato. Sono sempre in aggiornamento, anche all’estero, e penso il mio lavoro in uno scenario più ampio per costruire una mia visione. Il confronto diretto con artisti e professionisti italiani e stranieri serve ancora per capire come si posiziona la mia riflessione e la mia competenza in questo campo».
Che rapporto c’è fra l’arte contemporanea e il fruitore? Tu sei sostanzialmente nel mezzo, sei una specie di “traduttore”.
«L’etichetta di “traduttore” evoca un’intermediazione un po’ ingombrante, che gli anglosassoni assocerebbero al gatekeeping. Non sostituisco né autorizzo, ma lavoro per creare un contesto accessibile e non banalizzante. Mi interessa favorire un tempo dedicato da riempire di significato partendo dall’arte, anche quando quest’ultima appare disturbante o lontana. Punto a costruire un coinvolgimento che si manifesta in tanti modi, e che in ultima istanza produca un impulso di vitalità: una parola che sfida la paura. In uno spazio protetto e non giudicante, si producono sensazioni, emozioni, emergono posizioni e concetti che raramente espliciteremmo nel quotidiano. C’è anche una componente politica: un denominatore della mia attività è far riconoscere l’appartenenza dell’arte. Non importa se proviene da collezioni private: l’arte ci appartiene perché è espressione di tutta l’umanità, a prescindere dalla sua proprietà legale, e perché rappresenta il mondo di cui facciamo parte. Quindi l’arte ci appartiene e noi le apparteniamo».
Fino al 27 luglio la fondazione ospita presso Palazzo Buontalenti a Pistoia la mostra di Daniel Buren Fare, Disfare, Rifare. Lavori in situ e situati 1968-2025. Ci vuoi fare un piccolo focus su questo evento?
«Quello che ho detto è il presupposto alla mostra. Buren è un artista importantissimo, protagonista già del mio percorso di studi e di quello dei miei studenti di IED dove insegno arte contemporanea. La maggior concentrazione di sue opere in situ è a Pistoia e in Toscana. Non volevamo invitare solo un grande nome, ma contestualizzare il pensiero di un artista che è già parte del nostro patrimonio. Lui l’ha capito e ha accettato l’invito».