Una scritta luminosa sui mattoni di un palazzo cinquecentesco: Sex and solitude. Potrebbero iniziare così i titoli di testa di un film sulla vita di Tracy Emin, l’artista inglese a cui Palazzo Strozzi ha dedicato una mostra che durerà fino al 20 luglio. È incredibile che ancora non ci sia un documentario sulla vita e sul lavoro di Tracy Emin, e questo non solo perché la sua storia, il periodo in cui si è formata professionalmente e la sua arte sono estremamente interessanti: sono le sue stesse opere ad essere profondamente evocative, specialmente se messe in relazione con una certa corrente cinematografica. Le sue installazioni come My bed, Exorcism of the Last Painting I Ever Made e Everyone I Have Ever Slept With richiamano le scenografie di Sofia Coppola e i suoi proclami, che risplendono in luci al neon con colori sgargianti, potrebbero essere le battute di un film di Gaspar Noé o di Lars von Trier. Ma non è solo una questione di estetica. La vita di Tracy Emin è davvero insolita e totalmente connessa al suo tempo e al suo lavoro.

Nata a Croydon ma cresciuta nella cittadina sul mare di Margrate, dove durante l’adolescenza subisce ripetuti abusi sessuali da parte di coetanei, si trasferisce a Londra per studiare arte. Il primo collegamento tra la sua vita e il cinema lo ha fatto David Bowie quando, parlando di Emin, dichiarò che lei era «William Blake as a woman, written by Mike Leigh». Mike Leigh, regista di film di brutale bellezza come Segreti e bugie o Il segreto di Vera Drake. È in quell’Inghilterra difficile e grigia, rintracciabile nei film di Ken Loach oltre che di Mike Leigh, che si forma lo spirito dell’artista che dagli anni ’90 frequenta il mondo dei corti indipendenti prendendo parte come attrice a Quiet Life di Eugene Doyen e dirigendo e interpretando Sometimes the Dress Is Worth More Money Than the Money.

L’ultimo documentario dedicato a un’artista a raggiungere un pubblico formato non solo dagli appassionati di arte è stato Marina Abramovic: the Artist Is Present di Matthew Akers, uscito nel 2012. In seguito ci sono stati film altrettanto belli, come Anselm di Wim Wenders, che tuttavia non hanno oltrepassato la soglia di una cultura più pop e meno elitaria. Un’operazione di questo tipo applicata a Tracey Emin, in questo momento della sua vita e della sua carriera, potrebbe avere un impatto molto forte, perché implicherebbe molteplici livelli narrativi che vanno oltre la visione di un’artista che pure ha sperimentato tecniche diverse, sempre con brutale onestà. Nel 2020 le viene diagnosticato un cancro alla vescica: l’intervento, il dolore, la lunga convalescenza e il doversi riconnettere con un corpo diverso li ha raccontati lei stessa su Instagram. Durante lo stesso periodo Emin ha deciso di diventare sobria e, poco dopo, ha scritto di aver riscoperto la sessualità dopo un decennio, a 60 anni e con una stomia vescicale che la accompagnerà per tutta la vita. Probabilmente la lezione più grande che un’artista come Tracy Emin potrebbe dare attraverso un film che ne racconti la vita sarebbe quella della vulnerabilità, dell’imperfezione e della malinconia. Nel frattempo, non perdete la sua esposizione a Palazzo Strozzi.

Crediti fotografici: Ela Bialkowska