Un dialogo col professor Fabrizio Tassinari dell’Istituto Universitario Europeo
L’elezione di Trump ha messo in luce la mancanza di una strategia unitaria europea nei nuovi scenari internazionali. Qual è dunque oggi il ruolo dell’Europa tra crisi decisionali, rischi geopolitici e divari tecnologici? Ne abbiamo parlato con Fabrizio Tassinari, direttore esecutivo della School of Transnational Governance dell’Istituto Universitario Europeo, che ha sede a Firenze.
Manca davvero una visione europea o solo la capacità di comunicarla ai cittadini?
«Le avvisaglie dell’arrivo di Trump c’erano ma sono state sottovalutate. Alcune sue azioni erano prevedibili (i dazi e l’Ucraina), ma le modalità dello scontro e il tono ostile hanno sorpreso tutti. Va ricordato poi che ci sono limiti strutturali tra ciò che l’Europa può e vuole fare. Accordare 27 Paesi su scelte che Trump, Putin o Erdoğan prendono con una firma, non ci rende un attore decisionale unitario, quindi le tempistiche di azione sono lunghe e la qualità del processo diversa».
Nel progetto The World We Share lei ha studiato i possibili scenari geopolitici futuri. Quale le sembra più concreto e che ruolo avrà l’Europa?
«Lo scenario peggiore è lo scontro tra democrazie e autocrazie. Gli Stati Uniti di Trump si stanno orientando verso un modello di democrazia plebiscitaria, dove il presidente sente di poter prevalere sugli altri organi, allineandosi, seppur non formalmente, ai soliti noti (Russia, Cina, Turchia, India). Dobbiamo costruire una via che ci allontani da uno scontro con l’America e la Cina, ad esempio riscoprendo il valore dell’America Meridionale, dell’Africa e dell’Asia Sudorientale, affrontando le sfide storiche che comporta riaprire un dialogo con questi attori».
L’Europa, forte in lusso e turismo ma indietro su industria e tecnologia, rischia di trasformarsi in una destinazione d’élite, alimentando disuguaglianze interne?
«Il rischio esiste, specie in città svuotate di vita civile, culturale e industriale a causa dell’overtourism e del calo demografico. Tuttavia, l’Europa ha ancora settori e infrastrutture d’eccellenza, penso alla sanità o al trasporto ferroviario in Italia».
Perché è difficile trovare risorse centralizzate per l’innovazione tech o la transizione energetica, con la stessa urgenza e dimensione che si è avuta post pandemia o con la proposta di riarmo?
«Perché l’Europa agisce in modo rapido solo davanti a crisi esistenziali, con risultati anche sovradimensionati, come nel caso del PNRR. Senza crisi concrete, è lenta. Sul clima, se oggi parli di emergenza sei un catastrofista, ma se parli di crisi non generi urgenza. Per la tecnologia invece, anche disponendo di risorse, manca un ecosistema industriale e scientifico capace di svilupparla al pari di Cina e USA. Infine, l’Europa si è specializzata nella regolamentazione. È stata una decisione organica, che ha i suoi vantaggi (qualità amministrativa) ma anche svantaggi (difficoltà nel favorire le start-up).
Esiste la percezione che l’Istituto Universitario Europeo sia poco integrato nel tessuto culturale fiorentino. È vero?
«Sì, ma è comprensibile per due motivi: i nostri studenti e docenti arrivano da tutto il mondo, creando una barriera linguistica, e i temi che trattiamo sono astratti e non semplici da divulgare. Detto ciò, siamo sul territorio e vogliamo aprirci di più alla popolazione. La nostra scuola forma i leader del futuro, e questo deve avvenire anche nel rapporto con la sfera civica. Il disagio che descriviamo riflette anche la distanza percepita tra l’Europa e i cittadini di cui abbiamo parlato, e ridurre questo gap è fondamentale».
Questo articolo rientra nell’ambito del progetto Visioni Europee promosso da Tabloid Società Cooperativa in collaborazione con Lungarno e vincitore dell’Avviso Pubblico di Europe Direct.
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