In occasione del debutto alla regia di Claudio Cirri, membro storico del pluripremiato collettivo Sotterraneo con il suo spettacolo Di cosa parliamo quando parliamo d’amore, all’interno del Materia Prima Festival, abbiamo rivolto alcune domande al regista per scoprire di più su questo progetto intimo e sperimentale che porta il teatro direttamente nelle abitazioni private.

Cosa ti ha spinto a scegliere proprio questo racconto di Carver per la tua prima opera da unico direttore di scena?

È un testo che amo da molti anni e che ho avuto la fortuna di poter studiare a fondo già dal 2016, quando mi fu chiesto dal Teatro della Limonaia di Sesto Fiorentino di tenere un laboratorio all’interno del terzo anno della loro Scuola di Teatro e scelsi di lavorare su Carver e sui suoi racconti. Rileggendo questo testo in particolare in chiave teatrale mi resi conto delle sue potenzialità drammaturgiche già insite nel racconto. Uno dei quattro personaggi protagonisti della vicenda è anche il narratore e ogni tanto interviene all’interno della narrazione descrivendo accuratamente lo spazio in cui avviene l’azione, come cambia la luce del sole nella stanza, chi prende la parola, con una specie di “regia in diretta”. Avevo notato come questo personaggio in qualche modo dettasse i tempi, i ritmi, le atmosfere del racconto, una caratteristica che poteva essere rafforzata sulla scena, e quindi mi era rimasto il desiderio nel cassetto di realizzare un adattamento teatrale di questo racconto. L’altra motivazione della mia scelta risiede nel tema amoroso che mi è molto caro e il modo in cui lo tratta Carver lo è altrettanto. Quasi sempre nei suoi racconti i temi sono trattati in tutte le loro sfaccettature e le relazioni tra i personaggi si sviluppano in un modo assolutamente imprevedibile, lasciando scivolare il lettore in una spirale di non detti, frasi spezzate, pensieri inespressi, che trasmettono un senso di incertezza e spaesamento che mi sembrava interessante far rivivere anche attraverso lo spettacolo.

Clara Vannucci location Sistema Museale di Ateneo dell’Università degli Studi di Firenze

Intendi dire che i racconti di Carver restituiscono in maniera molto forte l’imponderabilità delle relazioni?

Sì, in questo racconto ad esempio troviamo quattro personaggi che si amano ma che al tempo stesso tirano fuori argomenti, parole e pensieri che iniziano a farli progressivamente vacillare ma non vengono espresse nitidamente le motivazioni profonde che scardinano gli equilibri tra loro quindi non è chiaro né ciò che è stato ne ciò che sarà.

Il tuo spettacolo si svolgerà in case private con il pubblico libero di muoversi intorno agli attori. Cosa ritieni che questo tipo di vicinanza e intimità aggiunga all’esperienza teatrale?

Si potrà instaurare un contatto molto ravvicinato con gli attori e la fruizione sarà quasi cinematografica: si potranno osservare da vicino tutti i movimenti, le espressioni del viso, i gesti, le reazioni, come fa una telecamera in un film specialmente se riprodotto e fruito sul grande schermo. Il pubblico sarà libero di girare intorno alla scena, cambiare il proprio punto di vista, avvicinarsi, allontanarsi e in un racconto così intimo che indaga in una maniera  chirurgica l’animo umano credo che questa farà da cassa di risonanza al racconto. C’è inoltre una ragione squisitamente filologica in questa scelta di ambientazione: il racconto si svolge tutto intorno al tavolo della cucina di un appartamento e mettere lo spettatore all’interno di questo contesto domestico mi sembrava il modo più coerente di portare lo spettatore esattamente là dove voleva portarlo Carver, in medias res.

Nel presentare lo spettacolo hai paragonato i racconti di Raymond Carver ai quadri di Edward Hopper. Puoi approfondire questa suggestione visiva e come ha influenzato la tua regia?

La definirei una suggestione rispetto all’atmosfera generale del racconto e allo stato emotivo dei personaggi. Se attraverso la regia ho cercato di limitare al massimo i movimenti e i gesti degli attori per dare forza e risalto alle parole di Carver, il riferimento a Hopper è cromatico ma anche contenutistico: i colori non sono accesissimi ma nello stesso tempo possiedono tocchi che emergono dalla penombra, come le caratteristiche stesse dei personaggi. Ci sono dei momenti dello spettacolo in cui emerge un dettaglio attraverso l’interpretazione degli attori. Nel testo di Carver uno dei protagonisti del racconto, insieme all’alcol, è la luce che entra dalla finestra della cucina e durante tutto il racconto cambia e Carver ci descrive di volta in volta come si abbassa, diventi sempre più rada esattamente come in alcuni quadri di Hopper. Nello spettacolo la scelta è stata quella di utilizzare una luce artificiale regolabile che potesse restituire il senso del trascorrere del tempo, metafora di una penombra emotiva in cui scendono i personaggi, presi in silhouette, mai completamente lineari e chiari neanche a se stessi.

Raymond Carver

Ci racconti un momento particolarmente significativo o sorprendente delle prove, magari un istante in cui hai sentito che la messa in scena stava davvero prendendo vita?

Il momento chiave è stato il primissimo giorno in cui ci siamo visti a gennaio e per la prima volta ho sentito il testo pronunciato dalle parole degli attori. Abbiamo fatto una lettura e lì ho iniziato a percepire che il materiale aveva un suo statuto drammaturgico e stava prendendo vita grazie anche ai quattro interpreti straordinari, Maria Bacci Pasello, Luisa Bosi, Fabio Mascagni e Woody Neri, che hanno da subito dato corpo alle parole di Carver dandomi delle grandissime possibilità. La cosa bella di quando fai il regista con attori bravi, come dice Massimiliano Civica, è quella di farti sorprendere dal modo in cui pronunciano frasi che tu avevi pensato in maniera completamente diversa ma che ti risuona e può dare nuova dinamica a ciò che avevi in mente. Lavorando in una casa si crea un’atmosfera molto domestica, amicale fatta di tisane, caffè, piccole pause e cose che poi entrano anche dentro il lavoro teatrale.

Cosa significa per te affrontare questo progetto individuale dopo tanti anni di lavoro con il collettivo Sotterraneo, c’è qualcosa che hai scoperto di nuovo su di te come regista attraverso questa esperienza?

Negli anni mi è capitato di seguire altri progetti da solo ma più piccoli e con meno esposizione di questo all’interno del Materia Prima Festival, quindi inizialmente ho avuto un po’ di paura come unico responsabile dello spettacolo. La strategia che ho adottato e che ho trovato vincente per me, è stata quella di essere molto trasparente con il cast e di esplicitare dubbi rispetto ai dettagli del testo, delle strade da percorrere o dell’impianto generale dello spettacolo. Mi sono fidato moltissimo degli interpreti come attori ma anche come autori quindi con un punto di vista personale molto forte, molto preciso e per me è stato molto importante. Questa possibilità di manifestare anche il mio spaesamento in certi momenti o le mie incertezze rispetto ad alcune dinamiche mi ha permesso di essere molto sereno e di non dover fingere di avere sempre tutto sotto controllo o un’idea precisa su alcune cose. L’altra cosa che ho imparato è stata l’importanza di arrivare molto preparato rispetto allo studio del testo, l’ho letto e riletto, studiando a fondo la versione originale e ciò mi ha permesso anche con il poco tempo di prove a disposizione di poter fare un lavoro accurato e che allo stesso tempo lasciasse grande spazio interpretativo agli attori. Questo è un metodo di lavoro che adottiamo da sempre con Teatro Sotterraneo: nel momento in cui la struttura dello spettacolo è solida e c’è una griglia abbastanza precisa all’interno della quale mettere gli interpreti e l’azione in termini di sguardo e concept, è bello poter lasciare una libertà di azione personale, anche di improvvisazione. In questo caso in particolare immagino che con la vicinanza del pubblico, gli sguardi, i rumori, il movimento intorno agli attori, tante cose potranno cambiare nel corso dello spettacolo.

Con il pubblico a un passo dal tavolo della cucina, e la luce che si affievolisce come nei quadri di Hopper, Di cosa parliamo quando parliamo d’amore promette di essere un’esperienza teatrale unica, un’immersione emotiva in cui le parole di Carver e la regia intima di Claudio Cirri si fondono per creare un piccolo mondo sospeso tra tisane, sguardi in penombra e verità sussurrate. Non resta che aprire la porta di casa (o meglio della scena) e lasciarsi trasportare accomodandosi in cucina.

CLAUDIO CIRRI
DI COSA PARLIAMO QUANDO PARLIAMO D’AMORE

produzione Sotterraneo
dall’omonimo racconto di Raymond Carver
regia Claudio Cirri

con Maria Bacci Pasello, Luisa Bosi, Fabio Mascagni, Woody Neri/Claudio Cirri
con il contributo di Fondazione CR Firenze
con il sostegno di Comune di Firenze, Regione Toscana, Mic

INFO E PRENOTAZIONI

T. 329 9160071

M. [email protected]
W. www.materiaprimafestival.com
W. www.murmuris.it
W. www.teatroflorida.it

INGRESSO

Intero 15€