Intervista a Federico Mattioli e Stefano Donzelli, registi de Il Macello

Dopo un anno di ricerca sul campo e interviste agli ex lavoratori dei mattatoi emiliani degli anni Sessanta, Federico Mattioli e Stefano Donzelli, due registi under 35, debuttano in prima nazionale con lo spettacolo Il Macello all’interno del Materia Prima Festival. Vincitore di due menzioni speciali, Borsa Teatrale Anna Pancirolli 2024 e Giuria Giovani Teatri Riflessi 9, lo spettacolo ripercorre l’ascesa e il tramonto del capitalismo industriale nell’Italia post fascista, attraverso lo scontro tra cultura contadina e crudeltà imprenditoriale. 

Prodotto in collaborazione con Il Lavoratorio, Il Macello si inserisce nel filone del teatro d’indagine,  mettendo in luce un luogo e un’attività censurati il rapporto tra uomo, carne e lavoro che esprime in diversi modi la violenza insita nella nostra società.

Abbiamo intervistato, prima della prima, i due giovani registi, Mattioli e Donzelli, per farci spiegare a voce tematiche, fili conduttori e genesi del loro lavoro.

Il Macello parla della nostra relazione antropologica con la carne, alludendo poi anche a un corpo privo di qualsiasi diritto. Qual è il focus del vostro spettacolo?

Ci interessava mettere al centro le promesse e gli inganni della cultura capitalistica italiana nel dopo guerra, un momento decisivo per tanti aspetti e le cui conseguenze si riflettono anche sulla società di oggi. Volevamo parlare di un momento in cui la lotta tra lavoratore e padrone era accesa e focalizzare quando si è spenta.

Come avete selezionato le storie che compongono lo spettacolo?

La prima è una storia familiare e proviene direttamente da mio nonno: una mattina mi sono svegliato presto e l’ho trovato nel pollaio mentre sbudellava una gallina, una cosa che ha sempre fatto ma che non l’avevo mai visto fare prima. Ha tirato fuori le interiora, io gli ho chiesto se si trattasse del cuore e lui mi ha risposto che era il “magone”, lo stomaco della gallina. Così ho iniziato a interessarmi al rapporto con la carne e sono venuto a sapere che mio nonno, negli anni Cinquanta, aveva lavorato in un macello a Sabbione (Reggio Emilia), così ho iniziato a interessarmi alla storia di quel luogo e attraverso ricerche d’archivio, contatti diretti e ho scoperto che aveva una storia di lotte operaie, era stato preso in gestione dai lavoratori ma poi era fallito. Alla fine è venuto fuori che in quel macello avevo fatto il mio primo corso di teatro a 14 anni, perché riconvertito in un Centro culturale come molti altri mattatoi d’Italia.

Potete tratteggiare brevemente la vicenda del protagonista?

Nani lavora nella tripperia di un macello e gestisce un negozio di alimentari con il fratello Domenico, il suo sogno, però, è quello di diventare un macellaio e ricomprare la casa contadina dove viveva con il nonno. Quando nel macello iniziano le lotte sindacali, lui decide di schierarsi dalla parte del padrone, tradendo gli altri lavoratori. Sempre più isolato, accetta lo sfruttamento e la violenza come parte della propria identità, rivolgendola non solo contro il corpo degli animali, ma anche verso le persone che più gli stanno vicino.

Cosa vi affascinava di questo momento storico e cosa ci racconta sul nostro presente?

Ci premeva mostrare il parallelismo nel rapporto tra il lavoro e la carne. Nel mondo contadino c’era una relazione quasi “analogica” con i corpi animali che facevano parte della vita quotidiana della comunità, l’uccisione del maiale, ad esempio, era un rito collettivo, seppur violento. Nella civiltà industriale questo rapporto viene a mancare e questo si riflette anche in ambito lavorativo, era questo l’argomento che più ci interessava affrontare. Il primo lavoro di Nani gli fornisce un’identità chiara, legata a una serie di affetti familiari e lo avvicina alla comunità, il lavoro industriale invece diventa pura fatica e sfruttamento. Nani sceglie di stare dalla parte del padrone accettando lo sfruttamento e la violenza come parte della propria identità. Come spettatori siamo in grado di capire l’inganno ma la sua logica è del tutto comprensibile e condivisibile, crede che se lavora duro potrà migliorare la sua condizione.

L’aspetto della violenza dei mattatoi è un tema che viene rimosso e censurato, come avete scelto di rappresentarlo sulla scena?

Come mezzo di trasposizione teatrale abbiamo scelto di lavorare sulla gestualità e sulla presenza di oggetti che ricordassero in un qualche modo la carne perché sono bagnati, ma abbiamo voluto sostituire la carne con dei lenzuoli di canapa antica. Si crea così una doppia immagine forte che protegge lo spettatore dall’aspetto più violento, ma gli consente comunque di immaginarlo e per questo gli arriva ancora più forte. Noi pensiamo che se avessimo usato davvero un corpo animale il messaggio avrebbe perso la sua forza.

Il dialetto e la cultura popolare sono elementi chiave della drammaturgia, quanto conta la lingua nel raccontare questo passaggio storico?

La lingua è stata parte del processo di indagine perché dalle interviste e dai materiali d’archivio abbiamo scoperto che il rapporto con la carne passa anche attraverso la lingua. Solo il fatto che un sentimento come il “magone” stia a indicare la carne di un animale ci fa capire quanto la lingua popolare fosse capace di esprimere la propria cultura.

Avete ricevuto la menzione speciale della Borsa Teatrale Anna Pancirolli e della giuria giovane dei Teatri Riflessi, quale tipo di reazione ha suscitato lo spettacolo nelle prime presentazioni?

Il nostro spettacolo è ambientato negli anni Cinquanta e in alcune parti è anche in dialetto. L’abbiamo portato a Milano e di Catania, piuttosto lontano dal nostro contesto culturale e linguistico. Devo dire che è stato ricevuto con molto più interesse da parte dei giovani, tutte e due le volte è stata una giuria popolare a premiarci, composta dagli studenti delle scuole superiori, quindi entrambe le volte c’è stato dato un premio dai giovani. Raccontando il passaggio dal mondo contadino al mondo industriale, chi ha vissuto questo passaggio forse si può sentire attaccato e può sentire la contraddizione in questo passaggio, per quanto necessario.

Se dovreste scegliere un’immagine simbolo dello spettacolo, una scena che racchiuda il senso de Il Macello, quale sarebbe?

Difficilissimo, per me sarebbe una scena che nelle prove abbiamo chiamato il toro al macello. A un certo punto il padrone, dopo che alcuni operai hanno preso d’assalto le macchine, paragona l’episodio al toro che viene portato al macello: più si avvicina e più inizia a scalciare e a dimenarsi. L’attacco alle macchine è stato l’ultimo tentativo del toro di piantare le corna addosso al padrone prima di venire macellato. Ovviamente il toro in questo caso è Nani stesso, o meglio la parte animale di Nani, che ha smesso di ribellarsi allo sfruttamento e al padrone e che ha aiutato a uccidere e a domare.

 

IL MACELLO

regia: Mattioli / Donzelli
drammaturgia: Federico Mattioli
performer: Stefano Donzelli
produzione: Pallaksch

INFO E PRENOTAZIONI

T. 329 9160071

M. [email protected]

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W. www.murmuris.it

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