Rubrica radicale di architettura, arte e psichedelia
“Qualcuno deve sempre gettare il panico se si vuole che il senso delle cose sia continuamente rivelato”
Ettore Sottsass
Archizoom è il primo gruppo radicale che nell’Italia del ’66 si organizza in un collettivo. Fondato da Andrea Branzi, Gilberto Corretti, Paolo Deganello e Massimo Morozzi vede l’arrivo nel ’67 di Lucia e Dario Bartolini. Analizzando la società dei consumi, portavano avanti attraverso il linguaggio artistico una vera e propria lotta sociale. Ispirati a nuovi sistemi figurativi in un’inversione di tendenza, invitavano ad una visione inedita e ribelle dell’architettura per come la si conosceva allora. Dario Bartolini, architetto e artista, ci ospita nella sua casa-studio tra le colline dell’Impruneta e ci porta indietro a quegli anni.
Cos’era Archizoom?
«È stato un incontro tra amici, eravamo sei personaggi molto diversi tra noi ma incuriositi a vicenda. La diversità è stata preziosa perché ognuno aveva una sua formazione, questo era il segreto della vivacità del gruppo, confrontarsi con ironia e senso critico. Ci chiamavano “la tribù Archizoom”».
Cosa c’era alla base del vostro pensiero?
«Distruggere l’architettura che invadeva le città, perché non era una buona architettura. Siamo cresciuti col mito della metropoli ma invece di essere luoghi di aggregazione sono di affollamento. A causa di questo giudizio non l’abbiamo mai praticata».
Qual è stata l’opera più significativa del gruppo?
«La Superonda. Si presta ad essere inventata nell’uso, ben riuscita e ancora in produzione, ma ogni oggetto per noi è come un figlio. Sceglievamo nomi con ispirazioni orientali, purché fosse diverso dai comportamenti che vigevano, come “l’afro-tirolese”. Era una provocazione e un divertimento, il rustico toscano era emblema di conservatorismo e noi proponevamo materiali, idee e orizzonti alternativi».
Com’era la Firenze di quegli anni?
«Parecchio dormigliona. Il conservatorismo della città ha fatto scatenare questi gruppi, il nostro impegno era proprio quello di scandalizzare i ben pensanti della società borghese di quegli anni. Era una provocazione e l’obiettivo era il distacco da quella visione di chiusura e da quella architettura».
Che importanza ricopriva il pensiero politico all’interno del movimento?
«Ci influenzava moltissimo, siamo stati il gruppo più politicizzato. Oggi a distanza di anni ho la coscienza di riconoscere che questa nostra ribellione era la reazione a un perbenismo falso di una classe fascista, che dopo la guerra ha continuato ad essere la stessa».
Avete creato un’idea d’abito come spazio da vivere. C’è un ideale preciso dietro questo sistema?
«Il Dressing design nasce dal progetto “No-stop city”, un’idea di città non utopica ma esposizione di come stava diventando la metropoli. Con infiniti piani da abitare, senza facciate, era un invito a vivere gli spazi neutri a modo proprio, insomma la morte dell’architettura. Il Dressing design rappresentava come vestirsi nella No-stop city e l’idea di affidare un quadrato di tessuto a chiunque per costruirne un edificio per il corpo».
Ettore Sottsass vi definiva “bravi ragazzi abbastanza cattivi”. Cosa ne pensa?
«Io mi ritrovavo assolutamente in questa sua definizione, eravamo capaci di offendere e graffiare attraverso i nostri mezzi. Sottsass è stato un amico ed era una sorta di art director che in qualche modo ha fatto notare agli altri la nostra realtà».
La città oggi accoglierebbe Archizoom e le sue visioni diversamente rispetto a ieri?
«Direi di no, anche se Firenze è cambiata. Al tempo si faceva un’architettura banale, oggi è diverso, forse grazie anche ai movimenti che ci sono stati. Amministrare questa città però è difficile perché non c’è una visione comune. Troppi cittadini fiorentini sono andati via e Firenze non funziona per questo. Se vogliamo la città bisogna viverci».
in copertina : Superonda divano poltrona (Courtesy Dario Bartolini, Archizoom)