di Tommaso Bonaiuti

 

Per anni John Webster Adams, musicista residente a Los Angeles, ha nascosto la sua identità. 

Muzz è uno dei suoi appellativi passati; è la troncatura di “muzzle”, “museruola”. Per un certo periodo si è fatto chiamare Fictional Boys, con un plurale mistificante, qualora l’intento non fosse abbastanza chiaro. Poi, ha iniziato a girare come Jack Name: ragione sociale che ancor più tende all’anonimato, e richiama John Doe (appellativo dato ad individui non identificati).  

Con una carriera passata in tuta mimetica, Jack Name è lì, anche se non lo vedi. In un mondo musicale che tende all’onnipresenza, lui ha deciso di nascondersi, accogliendo la lezione epicurea: láthe biósas, “vivi nascosto”.

È una presenza palpabile ed effimera, che raramente si esibisce in pubblico, e vive nelle parole e negli omaggi di colleghi illustri come U.S. Girls e Cate Le Bon, che descrive le sue canzoni come “ricordi, familiari ed estranei al tempo stesso”. Il convitato di pietra del cantautorato psichedelico americano. 

La “crisi d’identità” si riflette nel suo quarto album “Fabulous Soundtracks”, uscito lo scorso maggio per Maple Death Records: un art rock crepuscolare che si scioglie in paesaggi sonori sempre più oleosi e impressionisti, via via che la narrazione sonora si sviluppa su binari non convenzionali (come nella splendida “In a Violet Twilight”, e nella successiva traccia strumentale “Looking Through Pieces of Glass”, che denuncia un evidente debito con le chinoiseries di David Sylvian. 

Colonne sonore strabilianti, per una vita che, tutto sommato, risiede tra i confini dell’ordinario. È il primo album di Jack Name non condotto da un unico fil rouge, ma composto da piccole narrazioni quotidiane.

Il 18 settembre Jack Name si esibirà al Club Silenzio, venue dal nome significativo per uno che ha scelto di sparire (e riapparire) tra le pieghe del percettibile. Lo intervistiamo per cercare di carpirne i trucchi, capire qualcosa in più sulla sua figura, provando a tracciarne l’identikit.

La tua musica è come un gioco di prestigio: a volte ho l’impressione di riconoscere tratti musicali molto comuni, che appaiono semplici, pur celando complessità e maestria. Quali sono i tuoi metodi? A cosa t’ispiri, in primo luogo, per la stesura di un brano?  

Non credo di avere un metodo specifico.  Per me, la scrittura nasce dall’ispirazione, nel senso più tradizionale. Una sorta di spirito “soffia” dentro di te un’idea o una suggestione,  forse è la vita stessa, forse un momento, ma improvvisamente, c’è un’idea dentro di te e può emergere in forma musicale, o come arte visiva. Per quanto riguarda la musica che mi rende orgoglioso produrre, non ricordo mai il processo di scrittura. Le canzoni che ho scritto con un metodo, con dei trucchi da cantautore, mi stancano e dopo poco tempo non mi piacciono più, quindi provo a evitare quel tipo di scrittura. 

Ogni album che hai composto fino a qui era legato da un tema ricorrente. Dei concept album, se vogliamo. Questo è leggermente diverso, e viene descritto come una “collana di perle”. Di cosa parla “Fabulous Soundtracks”?

“Fabulous Soundtracks” è stato un tentativo di catturare i piccoli momenti della vita, cercare la musica dentro a quei momenti, e registrarli. È una cosa simile al trascrivere i sogni, appena si è svegli, ma con i suoni. 

Parlando di colonne sonore, noto una qualità “cinematica” nella tua musica, ed è un valore che riscontro sia nei suoni che nelle immagini che i tuoi testi evocano. Sei in qualche modo ispirato dalle colonne sonore dei film o, più generalmente, dal mondo del cinema? 

Mi ispirano alcune tipologie di film. Mi piacciono i film lenti e lunghi, con un sacco di dettagli e di spazi vuoti. Credo che la vera magia avvenga quando si lascia abbastanza spazio affinché l’immaginazione dello spettatore venga coinvolta. Sono molto ispirato dalla musica di Toru Takemitsu, che ha lavorato su parecchie colonne sonore. Mi piacciono anche molte musiche tradizionali da tutto il mondo. 

Trovo interessante la musica da film poiché include suoni e idee talmente folli che non starebbero mai in una canzone pop, ma che possono piacere a milioni di persone proprio perché facenti parte di un film. Inoltre, mi piace molto fare video, è musica in forma visiva, e mi piace anche collaborare con cineasti su colonne sonore. Vorrei tornare a farlo molto di più, in futuro. 

Hai anche riferimenti letterari a cui ti ispiri per la scrittura dei testi? O trattano perlopiù di vita vissuta, o slices of life in cui ti imbatti quotidianamente?

La stesura dei testi per me dev’essere musicale, non basarsi solo sulla metrica delle parole ma anche su come i suoni all’interno delle parole scorrono assieme. Voglio che sia molto naturale, come i movimenti di una pianta. 

Ogni autore ha il suo stile, un modo in cui usa il linguaggio. Molti dei miei testi si formano sulla vita vissuta, sul quotidiano. Ci sono scrittori che amo, e storie che trovo particolarmente suggestive, ma non è da lì che proviene la mia ispirazione. 

Negli anni hai assunto vari nomi d’arte, e un passaggio del comunicato stampa recita: “[Jack Name] ha rinunciato in modo provocatorio ai social media e si sta allontanando sempre di più dagli spazi rock convenzionali, suonando live raramente, e nel caso, improvvisando. La sua pratica rifiuta le pressioni sociali quando viste come dannose per i suoi istinti artistici”. Da cosa nasce questa necessità (se così la si può chiamare) di “scomparire”, o rimanere ai margini, soprattutto in una metropoli iperattiva come Los Angeles? 

Ho bisogno di molta concentrazione e attenzione per fare arte e musica. Oggigiorno hai troppe distrazioni, troppe interruzioni, e penso che questo potrà avere un’incidenza sempre più significativa sulla musica. Credo che già ce l’abbia. Il modo in cui le persone condividono spazio e tempo è differente, e il modo in cui ci relazioniamo è differente. La musica e l’arte fanno parte del lato trascendentale dell’umanità. Penso che sia difficile trascendere da questi schermi luminosi, dall’enorme massa di informazioni e stimoli, dal sovraccarico di social. I social media sono come un cocktail party dall’inferno che non finisce mai. Tutti quelli che conosci sono lì, e si osservano a vicenda. C’è una pressione costante a cui tener testa, una pressione sociale, quando le persone si comparano alle altre. Queste dinamiche rendono impossibile vivere nel momento presente. Se qualcosa appare online, è immediatamente nel passato. Anche una diretta in streaming è nel passato. Sembra che il tempo sia processato, lavorato, come il cibo in scatola. E come il cibo in scatola, è molto malsano. Molte figure della discografia si aspettano che gli artisti si prestino a questo gioco, ma credo che sia distruttivo per la creatività. E non mi piace affatto ciò che queste dinamiche provocano alla società e alla politica. Quindi per me, evitare di utilizzare i social e di essere “onnipresente” costituisce un atto politico, oltre ad essere un modo per proteggere la mia creatività.

Cosa ne pensi della cosiddetta FOMO [Fear of missing out, “paura di perdersi qualcosa”, ndr]? 

Ho paura di perdermi qualcosa della mia vita, ma per il resto non mi preoccupo. È importante essere nel momento presente, e ti fa stare bene.

C’è un artista (della scena di Los Angeles, ma anche di altrove) che consiglieresti e pensi che i lettori di Lungarno debbano assolutamente conoscere? 

Non saprei davvero. Non faccio parte di nessuna scena, in realtà. Ho qualche amico che fa musica, ma il più delle volte sto lontano dalla scena musicale di Los Angeles.

(Quasi) ogni musicista racconta di aver avuto un’epifania che lo ha spinto a fare musica. Qual’è stata la tua, se c’è stata? 

Non so. Ho sempre fatto musica, sin da quando ero bambino. Ho iniziato a cantare ancor prima di imparare a parlare. Per me è una cosa quasi mistica. È come una forza con cui entrare in comunione, penso che sia femminile. In tutta la mia vita, creare musica è la cosa più libera e magica che possa fare. 

Se potessi vivere nel corpo di un altro artista (anche deceduto) per un solo giorno, chi sceglieresti di essere? 

Forse Little Richard.

Qual è il brano/album che ami e che avresti voluto scrivere te? 

Ci sono così tante canzoni e album che amo, è un po’ ovvio o forse semplice, ma il mio album preferito di sempre è probabilmente il terzo dei Velvet Underground [l’omonimo, ndr]. Ma non avrei voluto scriverlo. Lo amo e basta.

 

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