Di Arianna Armani e Fabio Ciancone
I consultori sono un presidio sanitario essenziale per l’intera comunità di un territorio. Questi luoghi offrono servizi e prestazioni fondamentali per la cura e la tutela della salute delle donne, per il supporto psicologico e genitoriale alle famiglie, servizi di assistenza ai minori e di inclusione sociale. La redazione di Lungarno ha deciso di dedicare un approfondimento in più articoli sul tema, per indagare lo stato di salute dei consultori fiorentini. In questa prima intervista raccogliamo le testimonianze politiche di Elena e Laura, militanti di Non Una Di Meno Firenze e del gruppo GRETA, che si occupa di assistenza e accompagnamento delle donne che necessitano di supporto nei loro percorsi di tutela della propria salute ginecologica, con un approfondimento sull’interruzione volontaria di gravidanza.
Da quali esigenze nasce GRETA?
«GRETA nasce nel 2020 dall’esperienza preesistente di NUDM come gruppo di accompagnamento psicologico e pratico per donne che intendono interrompere la loro gravidanza. La nostra sola esistenza fa comprendere che nel funzionamento della legge 194 c’è qualcosa che non va. Lavoriamo principalmente sugli ospedali Palagi e Careggi. Soprattutto durante il Covid, abbiamo ricevuto numerose segnalazioni di soggettività con utero che non sapevano come fare a portare avanti le procedure per l’IVG. Le informazioni su internet non sono chiare, ci vuole molto tempo e questo fattore, quando si tratta di gravidanza, è essenziale: 90 giorni per abortire possono sembrare tanti, ma non lo sono. Il nostro obiettivo principale, quindi, è fare chiarezza e rendere le procedure più facili possibili. Facciamo un vero e proprio orientamento e, se necessario, accompagniamo anche fisicamente le persone che ne hanno bisogno. Anche la presenza di obiettori di coscienza ostacola le regolari procedure e l’equilibrio psicologico ed emotivo delle donne, senza considerare fattori pratici come l’accesso alle strutture sanitarie o i permessi di lavoro. Fino a qualche anno fa esisteva una rete capillare di consultori sul territorio fiorentino, progressivamente accorpati creando molti problemi all’accesso libero al servizio: ora bisogna prendere appuntamento tramite CUP o presentarsi molto presto per prendere il numerino e mettersi in fila. Ridurre le liste d’attesa è essenziale. Una persona con utero con un problema ginecologico non può permettersi di aspettare troppo tempo. Ci chiediamo, a questo punto, se nel nostro Paese la legge 194 sia mai stata effettivamente applicata».
Com’è la situazione degli obiettori di coscienza a Firenze?
«La Regione Toscana nel 2019 aveva dato dei fondi a gruppi anti-scelta per convincere le donne nei consultori e negli ospedali a non abortire: con la campagna “Smutandate” ci siamo opposte e questi fondi sono stati ritirati. Bisogna assicurarsi che questo non accada di nuovo. Al momento a Firenze non ci segnalano particolari criticità, in altre città della Toscana, invece, non sempre va tutto bene. A Careggi c’è una percentuale di obiettori di circa il 60%, anche se rimane il mantenimento di un servizio abbastanza accogliente. Spesso invece, nei consultori, rimane un forte giudizio psicologico e morale nei confronti delle scelte della singola persona, con domande invadenti e inopportune, non solo riguardo all’aborto: penso al caso di una ragazza lesbica che si è sentita giudicata per la propria identità sessuale. A volte, nei consultori, le persone non sono adeguatamente formate dal punto di vista psicologico. Non sempre, peraltro, il giudizio viene da obiettori, è un fatto culturale e sistemico. Dobbiamo ricordarci che i consultori nascono negli anni Settanta come spazi sanitari e sociali a cui rivolgersi per tantissimi fattori, dalla ginecologia ai primi approcci alla sessualità, come presidio che bilanciasse uno stigma socialmente e culturalmente diffuso. Nel tempo alcuni presidi sono stati chiusi e quella funzione sociale fondamentale si è persa, la qualità della prestazione e della presa in carico delle pazienti si è abbassata. È un problema strutturale, spesso derivante anche dalla mancanza numerica di organico, non si tratta soltanto della preparazione di singoli lavoratori e lavoratrici, anche perché spesso vengono favoriti i consultori privati rispetto a quelli pubblici nei finanziamenti».
Credete che questo stigma psicologico sia esso stesso una limitazione del diritto all’IVG?
«La 194, nonostante alcune lacune mai colmate negli anni, segna un punto fondamentale nel diritto all’aborto. La regressione culturale nei confronti dell’aborto ha portato alla costruzione di una serie di sovrastrutture burocratiche davvero limitanti. Ci sono anche limitazioni economiche, ad esempio, nella pratica dell’aborto chirurgico in luogo di quello farmacologico: è più invadente e molto più costoso. Paradossalmente, è stato il Covid a favorire la pratica dell’aborto farmacologico, perché gli ospedali erano intasati. L’ospedale Palagi, ad esempio, rifiutava di fare il farmacologico fino alla nona settimana, limitando la somministrazione alla settima, contrariamente a quanto previsto dalla legge: ci sono volute molte segnalazioni per cambiare questa pratica. Ora il ricorso al farmacologico fino alla nona settimana è consolidato. Non è solo la scienza a porre limiti, è soprattutto la burocrazia. Le linee guida dell’ex ministro della salute Speranza prevedevano la somministrazione della pillola per l’aborto farmacologico direttamente nei consultori. Questa pratica consiste nel somministrare due pillole, entrambe in ambulatorio, a distanza di 48 ore. Poiché la seconda pillola può richiedere un numero imprecisato di ore per l’espulsione del feto, chiediamo che il primo accesso sia fatto in struttura, mentre che la seconda pillola possa essere assunta da sola, in qualsiasi circostanza, tanto in ospedale quanto a casa. Bisognerebbe anche tenere in considerazione lo stato di salute delle strutture in cui si pratica l’aborto farmacologico: paradossalmente, con un aborto chirurgico sei per lo meno in un reparto di ospedale, quando si pratica il farmacologico le pazienti si ritrovano a sedere, aspettando anche molte ore, in strutture non accoglienti e non adeguatamente predisposte alla cura e alla tutela della salute psicologica della paziente».
Quali sono le vostre principali rivendicazioni e come le portate avanti?
«Qualche anno fa abbiamo fatto un auto-inchiesta per far emergere le criticità principali e aiutare le donne a superarle, ora stiamo facendo un nuovo sondaggio che ci permetta di analizzare nuovamente la situazione e vedere cosa è cambiato dal 2020. Un tempo esisteva il tavolo dedicato alla 194 con la Regione Toscana, poi è stato interrotto. C’è un aspetto sostanziale che è bene far emergere: le istituzioni e i presidi sanitari spesso ragionano guardando i dati, la media dei numeri e le prestazioni delle strutture sanitarie, noi riteniamo molto importanti le esperienze personali di ogni paziente, che vanno ben al di là dei report. La prassi spesso è molto diversa dalle procedure istituzionali».