Prima della sua lectio per La Città dei Lettori, abbiamo incontrato Luca Starita, italianista e autore (Canone ambiguo. Della letteratura queer italiana e Pensiero stupendo. Un saggio sul tradimento, entrambi editi da effequ) e ci siamo fatti spiegare se l’intelligenza artificiale coltivi i nostri stessi stereotipi.
Perché un italianista si interessa alle AI?
«Da quando le AI testuali, quelle che mi interessano, sono diventate disponibili per tutti hanno suscitato paura e curiosità. Chi scrive teme che prima o poi rimpiazzino gli umani nella creazione di storie, ma al momento non c’è pericolo visto la qualità delle narrazioni generate. Mi interessa piuttosto capire come le AI influenzano la percezione della realtà: le AI si modellano su chi le usa. Che tipo di strumento possono diventare per aiutarci a inventare nuove storie? E che tipo di storie favoriscono?»
Sono l’ennesima bolla o rimarranno con noi?
«Le AI sono già parte delle nostre vite: le aziende le usano per decidere chi licenziare o a chi aumentare lo stipendio. Nella scrittura tecnica (comunicati stampa, copywriting, e così via) vengono usate regolarmente. Il nostro mondo verrà trasformato: assomigliano all’arrivo di internet o dei social network. Trasformeranno come percepiamo un testo».
Ma le AI, computer freddi e razionali, hanno dei preconcetti?
«Dobbiamo ricordare che chatgpt o co-pilot funzionano con algoritmi programmati da esseri umani. E i programmatori si portano dietro preconcetti e stereotipi. Le AI si “allenano” su testi esistenti: presi tutti insieme, sono uno specchio della società. In Italia, ad esempio, ci sono ancora idee molto forti su cosa dovrebbe fare un uomo o una donna, un padre o una madre, nonostante la società reale sia già molto diversa».
Quanto sono aggiornate le AI sui cambiamenti in corso intorno al genere, al femminismo?
«Moltissimo. Facendo delle domande specifiche su chi siano, ad esempio, le persone non- binary, ci restituiscono spiegazioni dettagliate, con una visione progressista. Ma sul versante della narrazione tornano conservatrici, si attengono ai modelli dominanti nel mare di testi che hanno esaminato. Se chiediamo un racconto, i ruoli assegnati ai personaggi sono stereotipati: una donna sarà amorevole, un’infermiera; un uomo un leader visionario, forte; un bianco sarà un medico, un nero un giardiniere».
Le AI quindi rafforzano gli stereotipi?
«Purtroppo, stereotipi e discriminazioni sono già forti, anche senza le AI. Però, cercando il lato positivo, le AI rendono evidente come la società percepisca i ruoli di genere o l’orientamento sessuale. Sono uno strumento contro il “benaltrismo”: chi sostiene che non esistono stereotipi può usarle e ricredersi. Ci rispecchiano e il risultato non è confortante».
Esistono dei modi per evitare i bias usando le AI o siamo condannati a subirli?
«L’UNESCO ha prodotto un report che raccomanda alle aziende di impegnarsi per creare dataset più inclusivi. Per cambiare le AI, però, dobbiamo cambiare la società. Quando riusciremo a permettere la convivenza delle differenze, non per il singolo, ma per tutti, allora anche le AI cambieranno: saranno cambiati gli input su cui lavorano».
Qual è, quindi, un modo intelligente, per qualcuno che scrive, di usare le AI?
«Possiamo considerarle come una persona: qualcuno a cui chiedere tutto quello che ti passa per la testa. Per chi scrive è importante farsi leggere, avere un interlocutore. Le AI sono in grado di suggerirci come affrontare uno snodo narrativo che ci blocca, come un allenatore, di cui poi sta a noi accettare o rifiutare i suggerimenti. Nel ‘900 il confronto avveniva tramite scambi epistolari pieni di consigli. Erano uno strumento, non sempre la soluzione».
Ma quindi gli scambi epistolari, il confronto con gli altri scrittori, non serve più?
«Io non sono nostalgico. Nel ‘900 si usavano gli strumenti a disposizione e quelli di oggi non sono necessariamente peggiori. Il passato è perduto per sempre e questo non dovrebbe pesarci. Sono un appassionato di letteratura del ‘900 ma non rimango ancorato a un modo di comunicare o scrivere di un mondo che non c’è più. La fine di una tradizione non è un problema, anzi: il nuovo per emergere ha bisogno della morte del vecchio».
immagine di copertina creata con l’AI Co-pilot Designer