di Fabio Ciancone

Ali e Nino di Kurban Said (Mondadori, 2024) è un classico del Novecento: nella forma, nello stile, in come procede il racconto e nelle sensazioni che evoca al lettore. Eppure, dire Novecento è forse dire poco: esiste un Novecento maggiore, canonizzato e studiato nelle accademie; uno minore, diffuso nei circoli culturali dell’epoca e raccontato in qualche paragrafetto delle antologie moderne; un Novecento rimosso, perso nelle pieghe del tempo, cancellato dalla politica e dalle culture ufficiali, strappato via dalle storture del “secolo breve”. Kurban Said è pseudonimo di Lev Nussimbaum, ebreo ashkenazita nato in Azerbaijan nel 1905 e poi fuggito nel 1917 verso la Germania con il padre, ricco petroliere, dopo la rivoluzione bolscevica. In Germania, convertitosi all’islamismo, si era dato per la verità un altro pseudonimo: Essad Bey. Bey era diventato uno studioso molto conosciuto nei circoli della Berlino degli anni ’20, un “orientalista”, esperto di Medio-Oriente e autore di decine di saggi popolarissimi, tra cui una biografia di Stalin. Dopo che le sue origini ebraiche erano state rivelate alla violenta repressione nazista, Bey aveva dovuto necessariamente fuggire in Italia e cambiare nome di nuovo, stavolta proprio in Kurban Said. Lì la sua fama è andata perduta, la sua identità nascosta e tenuta segreta, anche molti anni dopo la sua morte. Said non scrisse più saggi ma romanzi – ignoti alla scrittura di Bey –, dimenticati a lungo nel corso del Novecento (Ali e Nino è del 1937, cinque anni prima della sua morte). Più complessa della biografia dell’autore, se possibile, è la storia editoriale del romanzo, per la quale vi rimandiamo alla prefazione della sua nuova edizione italiana edita da Mondadori. Abbiamo intervistato Enrica Fei, arabista fiorentina e autrice della prefazione (la traduzione, dall’inglese, è di Ilaria Mazzaferro e Stella Sacchini) per inquadrare una delle figure intellettuali più enigmatiche del Novecento.

 

Da dove si comincia a raccontare la storia di Kurban Said, alla luce di quello che ha scritto?

Penso che sia necessario tener conto della sua volontà in questo senso, forse con una dose di presunzione: dovremmo partire da Essad Bey. Questo primo pseudonimo era un nome di elezione, in tempi in cui ancora l’odio nazista antisemita non lo ha costretto alla fuga dalla Germania verso l’Italia; era un nome di elezione anche religioso, come da usanza di chi si converte all’islamismo. Con il nome di Essad Bey si è imposto come intellettuale di punta in Germania, esperto di “Oriente” e di cultura mussulmana. La sua biografia di Stalin è uno specchio anche del suo odio verso il movimento bolscevico, per lui che era nato in un Azerbaijan oasi di tolleranza e di multiculturalità; aveva in odio quella cultura al punto che arrivato in Italia, prima di morire, voleva intervistare Mussolini, eppure non era sciocco, sapeva bene di quanto il partito fascista avesse in odio gli ebrei; difatti la polizia segreta fascista iniziò a indagare su di lui, ma poi intervenne la morte.

Sembra che a ogni identità di questa persona corrisponda una vicenda artistica differente. È come se i diversi percorsi biografici corrispondessero ad altrettante fasi letterarie, quasi a configurare personalità intellettuali slegate tra loro.

È vero, soltanto sotto il nome di Kurban Said ha scritto fiction, mentre Essad Bey si è dedicato esclusivamente alla saggistica. Questo ci porta dritti alla questione dell’identità di questa persona. A pensarci, è possibile definire in modo univoco la nostra identità in relazione alle nostre aspirazioni e ai nostri desideri? L’identità è relazionale, ha a che fare con il nostro sguardo e con ciò che ci sta intorno. Forse è possibile farlo per sottrazione o per negazione, ma anche in questo caso sarebbe un’operazione complessa. L’esperienza di vita di Kurban Said offre riflessioni di ampio respiro sulla questione identitaria. Con i suoi nomi, Bey/Said mostra quanto sia difficile persino nominare la nostra essenza. Non parliamo soltanto di un ebreo ashkenazita di origine russa convertito all’islam, ma anche di uno (o più) intellettuali che si incarnano in una persona sola.

La figura intellettuale di Said sintetizza alcune caratteristiche di tutto il Novecento, della sua tradizione e della sua riscoperta, della distanza tra canone maggiore e canoni minori.

Essad Bey è un intellettuale che la storia ha collocato all’interno di un canone minoritario. Tuttavia, c’è da dire che questa collocazione è considerabile un prodotto canonico a posteriori, che non necessariamente veniva percepita così mentre il Novecento si stava svolgendo. Nella Berlino degli anni ’20, dove i club letterari russi erano molto in voga e vi partecipavano personalità come Nabokov e Pasternak, Essad Bey era una vera e propria star. I suoi studi erano studi “orientali”, che il nostro canone ha relegato in una posizione di secondo piano. Il fatto che Bey fosse “il divulgatore” di un mondo lontano dalla cultura ufficiale del Novecento europeo può aver fatto sì che, oggi, lo consideriamo uno studioso minore, ma forse si potrebbe leggere la sua come una figura molto popolare che si occupava di mondi lontani dai nostri. Sono due cose non sovrapponibili. Pensiamo, per fare un esempio contemporaneo, alla diffusione odierna della letteratura giapponese. Per noi è una cultura sicuramente altra e estremamente affascinante, ma non ancora centrale. D’altronde, il Novecento è stato il secolo dei nazionalismi e dei suoi revival identitari: è un elemento che non possiamo dimenticare e che potremmo avere introiettato noi stessi nella definizione del canone novecentesco. Il regime di verità del Novecento, per come lo intendeva Foucault, era un regime in cui la razza era considerata un concetto scientifico, il senso identitario era fortissimo e si nutriva del conflitto con le identità altre. Che quindi questo possa aver portato alla definizione, oggi, di un canone che considera Essad Bey un intellettuale minore è un fattore che non dobbiamo tralasciare. Il canone poi, per definizione, è un concetto mobile e mutevole, è il risultato di un campo di forze in continua evoluzione.

Come hai lavorato allo studio della figura di Kurban Said?

Ho iniziato leggendo Ali e Nino e prendendo appunti rispetto a quello che potevo soltanto immaginare su questo autore, degli appunti pieni di punti interrogativi. Poi ho cercato pubblicazioni su di lui e sul libro, soprattutto in inglese e in tedesco, ma gli studi accademici mi avrebbero portata molto lontano dal mio focus. Il libro su Essad Bey di Tom Reiss, The Orientalist (2003), è stato molto utile [è il libro che ha fatto emergere che Said e Bey fossero la stessa persona, ndr]. Con tutti questi riferimenti ho messo insieme le fasi della vita dell’autore con il contesto storico circostante, dalla Germania nazista all’impero russo. Ho potuto quindi tracciare delle linee essenziali della vita di Kurban Said, una colonna vertebrale delle sue fasi e poi colmare i vari vuoti.

C’è chi dice che per studiare la letteratura sia necessario anche conoscere la vita dell’autore, studiarne la biografia e il contesto. Personalmente non sono d’accordo, penso che molto spesso siano più importanti i fenomeni collettivi e sociali che quelli individuali, ma qui si parla di un caso limite. Ali e Nino, nella trama stessa, riflette alcuni aspetti biografici della vita di Said. Sarebbe un errore leggere il romanzo alla luce della vita di Said?

Credo che questo romanzo sia un caso in cui conoscere la vita dell’autore posizionandola nella Storia ci fa possedere strumenti necessari a comprendere e apprezzare il romanzo. Questo avviene in moltissimi casi quando si esce dalla letteratura del nostro contesto culturale. Da arabista me ne rendo conto spesso. Non necessariamente le biografie degli autori sono illuminanti, ma una consapevolezza maggiore ci tiene al riparo da letture errate, che nascono da proiezioni della nostra cultura su culture altre, ci dà maggiori strumenti di comprensione. Proiettare la nostra identità sulle altre è inefficace oltre che errato, fa saltare i nessi logici.

 

La vicenda editoriale di Ali e Nino appartiene anch’essa alla definizione del Novecento rimosso a cui accennavamo prima. In sintesi, il romanzo viene riscoperto e tradotto in inglese nel 1970, con grande successo di pubblico, da Jenia Graman, che lo aveva acquistato in una versione tedesca vent’anni prima in una bancarella di Berlino. Non è noto in che rapporti fossero Graman e Said, se si conoscessero, perché Graman insistette vent’anni per tradurlo e pubblicarlo in inglese e forse non ci è dato il diritto di saperlo. È curioso che gli anni ’70 siano il decennio in cui il Medio-Oriente entra in maniera più decisa nel “nostro” Novecento. Forse è l’ennesima manifestazione di questo emergere di traiettorie politiche fino a quel momento sommerse.

Se pensiamo alla notorietà di Essad Bey è incredibile che Kurban Said sia riuscito così facilmente a scomparire. Ma, allo stesso tempo, se riflettiamo sulla tragicità del secolo breve e sulla grandezza del dolore che ha provocato, non ci deve sorprendere che nemmeno i suoi più cari amici dissero pubblicamente che Said e Bey erano la stessa persona, nemmeno a trenta o cinquant’anni dalla sua morte, quando Ali e Nino era stato riscoperto postumo e si discuteva su chi fosse Kurban Said. Il trauma che il Novecento ha rappresentato per tantissime persone, la violenza nel torcere le identità altre, è enorme, incommensurabile. Anche chi scappava negli Stati Uniti per sfuggire all’antisemitismo cambiava nome, non accadeva soltanto in Europa. Le relazioni di potere instaurate durante il nazifascismo, che si sono riverberate negli anni successivi, hanno avuto un’eco incredibile.