di Matteo Cristiano

“Uno dei libri più intersezionali che ho letto”, così Carlotta Vagnoli ha definito il libro di Ilaria Maria Dondi, Libere di scegliere se e come avere figli.

Presentato dall’autrice con Vagnoli durante la seconda giornata del festival Città della Cura promosso dall’associazione Tocca a noi, Libere è quel libro che cerca di «avvelenare i pozzi», come diceva un poeta fiorentino. Avvelenare i pozzi significa sconvolgere le certezze, squarciare i veli delle false coscienze. È bastata una semplice domanda per dimostrare come la maternità, e in generale la genitorialità, sia una somma di costruzioni sociali e biopolitiche.

Dondi ribalta la domanda – violenta – che ogni donna (Dondi usa il sintagma persone con utero per includere tutte le soggettività potenzialmente madri, ma per il senso comune, madre è donna etero) senza figli si sente rivolgere quotidianamente, ovvero “come mai non hai figli?” e sottopone la domanda inversa alle madri: perché hai dei figli? La verità è che, il più delle volte, si fanno i figli per inerzia rispetto all’aspettativa sociale.

Il punto centrale del discorso di Dondi è l’equazione matematica (e sociale) che lega genere femminile e maternità. Quando delle categorie si danno per essenziali, ipostatizzate, come madre, padre, corpo, allora tutta la fenomenologia dell’esistenza materiale passa in secondo piano, in favore di una norma ideale difficilmente rispettabile. Un aspetto interessante messo in luce da Dondi è la discrepanza tra maternità e paternità: alla figura femminile si lega implicitamente il paradigma produttivo, dimostrando come il genere femminile sia subordinato alla sua capacità di procreare; per quanto riguarda il genere maschile, invece, la paternità è una possibilità, una scelta. Un uomo viene prima visto in quanto individuo capace di sviluppare la propria personalità, non come fornitore di spermatozoi. La donna è, in primo luogo, madre partoriente, successivamente individuo con una soggettività. Lo dice anche la Costituzione italiana, dove parla della «essenziale funzione familiare» della donna, non esplicitata riguardo gli uomini, dimostrandoci così come anche la Costituzione necessiti di essere aggiornata.

Il discorso sulla genitorialità, una volta smacchiato dalla retorica dell’essenzialismo, ha il pregio di includere una quantità immensa di fenomeni sociali e individuali. Entra in gioco, allora, quella che l’autrice definisce come “maternità selettiva”: la donna è implicitamente madre solo alle condizioni indicate dal senso comune. Entra in gioco il sistema di coppia, perché una coppia omosessuale difficilmente può acquisire il diritto alla maternità nel senso comune; entra in gioco il tema della corporeità e dell’abilismo, perché alle donne disabili si sconsiglia solitamente la maternità; entra il gioco il tema del genere, perché una donna trans che voglia intraprendere il percorso genitoriale verrà vista come innaturale.

La domanda, allora, dovrà essere cosa vuole dire donna? Perché c’è un cortocircuito dato dall’essenzialismo delle idee conservatrici e regressive: donna è una categoria naturale ma le sue caratteristiche sono scelte dalla classe dominante, dagli uomini. Per essere madri, allora, bisognerà essere donne come viene stabilito dal paradigma sociale, spacciando questa definizione per naturale.

Ma cosa vuol dire tutto questo? Come si ripercuote sulle persone con utero? Potremmo parlare del “doppio vincolo” Batesoniano, della situazione di costrizione cognitiva e affettiva delle persone con utero. A ben vedere, la maternità è un privilegio: privilegio di classe, certamente, privilegio corporeo, di genere, geografico, ecc. Per questo colpevolizzare le persone che non hanno figli è una forma di violenza: ci possono essere motivi fisici o economici per cui una persona si trovi impossibilitata a procreare; e se donna è uguale a maternità allora si condannano queste persone ad uno stigma che non gli appartiene veramente, mettendo in pericolo la loro salute affettiva e mentale.

 

 

Crediti fotografici: Lorenzo Ferraro